Israele e Palestina tornano a parlarsi, non ad ascoltarsi

Se la notizia della ripresa a Washington, in presenza del presidente americano, di negoziati diretti fra israeliani e palestinesi in autunno sarà confermata si verificherà una paradossale situazione: Barack Obama, Benjamin Natanyahu e Abu Mazen agiranno in funzione delle loro politiche interne mentre il futuro del conflitto dipenderà dalla situazione in Irak e Turchia. Per il presidente americano l’importante è che questi incontri avvengano prima delle elezioni di metà mandato in novembre. Nessuna iniezione di popolarità sarebbe per lui più utile di una stretta di mano, in suo presenza, fra Abu Mazen e Netanyahu sul prato della Casa Bianca. Quello che succederà dentro all’immobile presidenziale non avrà molta importanza poiché usare colloqui per guadagnare tempo è meglio che assumersi la responsabilità di un (probabile) fallimento.
Per il premier israeliano, si tratta di evitare che il partito di destra Israel Beitenu, guidato da Avigdor Lieberman, lasci la coalizione. Ma il ministro degli Esteri non intende favorire l’entrata del partito d’opposizione di Tzipi Livni, Kadima, al suo posto mentre partiti religiosi accetteranno il prolungamento del congelamento delle costruzioni in cambio di favori economici.
Per Abu Mazen, trattare direttamente con Netanyahu significa andare a Canossa a Washington nonostante le minacce dei rivali di Hamas, da Gaza. L’alternativa è perderne il loro sostegno politico assieme agli aiuti economici di Paesi arabi convinti che il prolungarsi del conflitto giochi a favore del radicalismo islamico e dell’Iran.
Se le considerazioni di politica interna appaiono determinanti se non altro per la ripresa dei colloqui, lo sviluppo della situazione in Irak e la posizione della Turchia potrebbe avere influenza sui loro risultati. La ritirata dell’America dall’Irak aumenta certo - come spiegava Gian Micalessin sul Giornale - il rischio della sua balcanizzazione. Ma anche quello della sua dirigenza di finire ammazzata e dunque spingerla a una maggiore collaborazione. Ciò che questa ritirata cambia è la dipendenza dalla collaborazione turca necessaria per fare la guerra. Questo significa che la minoranza curda in Irak, la sola militarmente organizzata ed economicamente in sviluppo, non sarà più limitata come prima nel suo sostegno ai curdi di Turchia.
In questo Ankara vede già l’influenza di Israele. Ha denunciato come un complotto di Tel Aviv il fatto che i curdi avessero la tregua unilaterale in coincidenza con il tentativo della nave Marmara di entrare a Gaza. Pensa all’intervento israeliano nella minaccia di Washington di limitare la fornitura di armi a causa del sostegno all’Iran. Teme che il Congresso di Washington riapra la questione del genocidio armeno e che la visita di Netanyahu ad Atene -nemico storico della Turchia ma con tradizionali rapporti di amicizia con i palestinesi - ostacolino gli sforzi di Ankara di erigersi a nuovo paladino della causa palestinese (oltre a rinforzare l’opposizione internazionale all’occupazione turca di un terzo di Cipro, principale ostacolo all’entrata della Turchia in Europa).
La Turchia assumerà la prossima presidenza del Consiglio di Sicurezza davanti al quale sono pendenti molte questioni contro Israele.

Dal modo in cui la presidenza turca li tratterà sarà possibile capire se i rinnovati negoziati israelo-palestinesi resteranno un dialogo fra sordi. Finale quasi scontato, tra governanti interessati a guadagnare tempo piuttosto che prendere difficili decisioni in un conflitto che tutti affermano voler vedere finire ma nessuno lo desidera veramente.

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