Alla fine sulla poltrona di premier si siederà Bibi. I voti non lo dicono, ma la legge dei numeri e della politica lo impone. Tzipi Livni, mormorano quelli di Kadima, l’ha già capito, si è rassegnata, ha rinunciato al sogno di novella Golda Meir e si prepara a replicare se stessa accettando, nel nome dell’unità nazionale, un altro mandato da ministro degli Esteri. Il conteggio dei voti di caserme, ospedali e ambasciate, ufficializzato solo ieri sera, ratifica i 28 seggi di Kadima, i 27 del Likud di Benjamin Netanyahu, l’ascesa a terzo partito dell’Israel Beitenu di Avigdor Lieberman con 15 seggi, e la disfatta dei laburisti di Ehud Barak precipitati a quota 13. Quella conferma non garantisce però alla Livni la guida del paese. In Israele per vincere bisogna dimostrare al presidente Shimon Peres, che mercoledì inizia le consultazioni, di avere in tasca i numeri per formare un esecutivo.
La tragedia di Tzipi è tutta in quei maledetti numeri. La Knesset conta 120 deputati, ma lei anche tirandosi dietro i laburisti e il resto della malconcia sinistra non arriva a 55 seggi. Dall’altra parte neppure il leader del Likud ride troppo. Il suo problema non è la quantità di deputati disposti a garantirgli la fiducia iniziale, ma la loro affidabilità e la loro compatibilità. Mettendo accanto ai propri deputati i 15 del partito rivelazione di Avigdor Lieberman, e unendoci gli ultraortodossi, i coloni e l’estrema destra, il capo del Likud può facilmente mettere insieme una maggioranza di 65 voti. Il problema a quel punto sarebbe riuscire a far convivere gli ultraortodossi dello Shas con un Lieberman più volte definito “ateo e miscredente” per aver invocato l’introduzione del matrimonio civile. Prima ancora, Bibi dovrebbe convincere l’anziano Shimon Peres che un governo così sbilanciato a destra sia in grado di garantire la governabilità e i buoni rapporti con gli Stati Uniti di Barak Obama.
L’unica soluzione in grado di spazzar via le incognite assicurando numeri affidabili a Bibi e una ritirata dignitosa alla vincitrice formale delle elezioni è un compromesso d’unità nazionale tra Likud e Kadima. Come tutti i compromessi richiede però sacrifici. La Livni è pronta ad accettarli perché sa che neppure un sofferto accordo con Avigdor Lieberman le garantirebbe una coperta meno corta. Piegandosi alle impossibili condizioni avanzate dall’uomo più detestato dalla sinistra perderebbe i laburisti e gli altri elementi fondamentali per formare una coalizione.
Per Netanyahu il compromesso con la rivale è invece la garanzia di non ripetere una sofferta esperienza personale. Nel 1996 la vittoria strappata per una manciata di voti all’attuale presidente Shimon Peres si trasformò, nei tre anni al potere, in una umiliante batosta. Costretto a fare i conti con i rissosi partiti religiosi e dell’ultradestra e con le regole impostegli da una Casa Bianca guidata dal presidente Bill Clinton, Netanyahu non riuscì a soddisfare né gli alleati di casa, né quelli di Washington e alla fine dovette rinunciare non solo alla guida del governo, ma anche a quella del Likud. Stavolta potrebbe andargli allo stesso modo. Il primo fattore di rischio si chiama Avigdor Lieberman. Fino ad ora il leader di Israel Beitenu non ha ancora detto a chi garantirà i suoi 15 voti, ma né Bibi, né la Livni sembrano ansiosi di saperlo. E non tanto per una discussa, ma non comprovata propensione all’estremismo quanto per la sua sperimentata rissosa inaffidabilità. Negli ultimi otto anni i voltafaccia di Avigdor sono diventati l’unica vera garanzia della politica israeliana.
Nel 2001 abbandonò dopo 12 mesi il primo governo di Ariel Sharon.
Tre anni dopo fu Arik a doversi disfare di lui per portare a termine, senza rotture di scatole interne, il ritiro da Gaza. Nel gennaio 2008 fu invece Avigdor a sbattere la porta in faccia a Ehud Olmert dopo essersi fatto garantire l’importante carica di ministro per gli affari strategici.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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