Israele ha paura di una nuova Intifada

Israele ha paura
di una nuova Intifada

Quello che i palestinesi «si devono preparare ad affrontare è né più né meno che una battaglia strategica conclusiva con Israele. Non devono sentirsi scoraggiati dal passato ma guardare con fiducia al futuro...». Queste sono per ora solo parole contenute in un documento di 60 pagine intitolato «Riconquistare l’iniziativa» pubblicato in agosto dopo una serie di incontri di intellettuali e politici palestinesi (sostenuti da un’iniziativa dell’Oxford research group finanziato dall’Unione Europea), fra cui molti di Fatah, inclusi anche ex ministri dell’Autorità Palestinese.

Il documento, ultimato in agosto, in sostanza suggerisce di abbandonare la vecchia strada del negoziato, ritenuto ormai fallito con Annapolis, per avviare «una resistenza intelligente» e un’Intifada che si basi su un necessario ritrovato accordo fra Hamas e Fatah. Di fatto la parola «resistenza» ricalca l’impostazione bellicista degli hezbollah, usarla vuol dire solo scontro senza remissione, come poi chiarisce il seguito. Ma le parole non desterebbero preoccupazione se non fossero parte di una situazione sull’orlo del baratro che può portare al rapido deteriorarsi della situazione di relativa calma fra Israele e i palestinesi: Fatah ha perseguito un accordo mai realizzato sulla spinta di Bush tramite il rapporto fra Abu Mazen e Olmert, ormai fuori gioco, e dall’altra parte la tregua con Hamas ha molto diminuito i missili Kassam su Sderot.

Ma il baratro è dietro l’angolo: il 9 gennaio scade il mandato presidenziale di Abu Mazen. Egli, tuttavia, è determinato a prolungarlo almeno di un anno, finché scada anche il termine delle elezioni del Consiglio legislativo, da cui ebbe origine la mortale presa di Hamas su Gaza e la sua strisciante forza nel West Bank. Ma Hamas non vuole saperne e minaccia molto pesantemente una reazione violenta e una sostituzione forzosa di Abu Mazen. Fatah tuttavia, non sta a guardare: da una parte cerca la pace con Hamas, e visto il fallimento del Cairo che da tempo cerca di mettere d’accordo le due parti, proprio domenica Abu Mazen è andato a Damasco per provare la mallevadoria di Bashar Assad, cui il capo di Hamas all’estero Khaled Mashaal deve pur qualcosa per la lunga e onerosa ospitalità. Dall’altra parte, con il permesso degli israeliani che temono per lui, Abu Mazen ha ottenuto proprio ieri il permesso che 700 uomini armati vengano introdotti fin da ora a presidio della città di Hebron, nella West Bank, un fortino di Hamas, e da parte israeliana si suggerisce che Abbas è pronto a stroncare Hamas da subito con arresti e confische.

Chi ricorda il sangue e gli orrori dello scontro Hamas-Fatah a Gaza può immaginare cosa accadrà sia a Gaza che a Ramallah, Hebron e così via, se le due parti non troveranno un accordo. Del resto Hamas non intende rinunciare al potere, all’eccitazione religiosa che le vibra nei muscoli dal 2006 e le dà il vento in poppa: i loro amici, gli Hezbollah sono una forza vittoriosa, Ahmadinejad un leader che guiderà l’Islam alla distruzione d’Israele e al rovesciamento del potere mondiale a favore dell’Islam, Al Qaida un amico lungimirante e potente. La crisi americana, inoltre, è considerata un segno del Cielo. Come si collega tutto questo alla possibilità di nuova Intifada? Attraverso la necessità di Abu Mazen di conquistare il consenso, sempre più scarso quando si parla di pace e di rapporti con gli israeliani. Un paio di segnali forti li ha già dati, come per esempio la visita in Libano a Samir Kuntar, che ha ucciso una bambina ebrea spaccandole la testa col calcio del fucile.

Abu Mazen sa che la sua debolezza, legata alla fatale ostilità di metà almeno del suo popolo, diventerà forza solo se la lotta comune al Nemico per eccellenza, Israele, seppellirà le continue accuse di Hamas di essere un burattino degli americani e degli israeliani.

Adesso i «suoi» americani, Rice e Bush, e il suo israeliano, Olmert svaniscono all’orizzonte come il sorriso del gatto di Alice e brillano le armi di Hamas che suggeriscono: «Attenzione, o con noi, o contro di noi». Abu Mazen è di fronte a un dilemma fatale.

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