Il premier israeliano che si reca a Washington per dare il via in presenza del presidente Obama a una nuova serie di difficili negoziati coi palestinesi è un politico differente dal Netanyahu che in marzo fu lasciato senza cena dopo due ore di sdegnato incontro con l'inquilino della Casa Bianca.
Molte sono le ragioni del rapido cambiamento di atmosfera: l'avvicinarsi delle elezioni "mid term" in America, viziate per Obama dalla delusione dell'elettorato per la mancanza della ripresa economica; il bisogno del presidente di non alienarsi l'influente elettorato ebraico legato sulla questione di Gerusalemme con il potente settore fondamentalista cristiano; l'impotente vittimismo dei palestinesi di al-Fatah paralizzati dalle minacce di Hamas e convinti della debolezza di Israele; lo spauracchio nucleare iraniano, eccetera.
Dietro a tutto questo c'è un fattore nuovo più volte ricordato da questo giornale: la trasformazione di Israele da fattore militare occidentale problematico in fattore economico-energetico asiatico di crescente peso. Una evoluzione tanto più sorprendente se si tiene conto dell'immagine di Stato in permanente in pericolo di eliminazione, delegittimato dal mondo islamico e di sinistra, considerato minato all'interno da insolubili problemi di identità, dipendente dagli aiuti americani e dalla beneficenza ebraica, seduto sui carri armati e sulle sofferenze dei palestinesi imprigionati a Gaza, oppressi in Cisgiordania e all'interno di Israele stesso.
Incapace di sfatare queste menzogne e di mutare questa caricaturale immagine di sé in molti ambienti mediatici, Israele sorprende il mondo economico uscendo indenne dalla crisi economica assieme all'India e alla Cina. Entrato nell'OECD, dotato di moneta stabile che fa aggio sul dollaro, senza inflazione e con una disoccupazione discesa in 5 anni dal 12 al 6%, ha esibito nel secondo semestre del 2010 una crescita economica del 4.6%. Indifferente alle minacce di disinvestimento a causa (contrariamente a quello che era successo al Sud Africa) di un crescente afflusso di capitali esteri e di turisti, Israele che affronta questo nuovo giro di negoziati di pace a Washington, è secondo il settimanale Newsweek al 22° posto per qualità di vita nel mondo e al primo nel Medio Oriente ( con Kuwait al 40° e la Siria all'83°). Le statistiche possono sempre ingannare ma fa riflettere il fatto che nel 2010 le esportazioni israeliane verso l'India sono aumentate del 120% , verso la Cina del 109%, verso il Brasile del 67%, diminuendo progressivamente la sua dipendenza economica dall'Occidente (che resta il suo partner commerciale preferenziale) e aumentando quella dall'Asia. Non si tratta soltanto di economia. In Asia risiedono oggi le riserve di nuovi immigranti, di quegli "Ebrei del Ritorno" di cui si parla intenzionalmente poco ma che si contano ormai a diecine di migliaia in Israele. È significativo che quest'anno per la prima volta si siano iscritti nelle accademie rabbiniche israeliane sette candidati rabbini cinesi provenienti dalla antica e scomparsa comunità ebraica di Kaifeng. Non meno lo è la decisione del governo di creare un fondo per il rimpatrio di 450 universitari e scienziati israeliani emigrati all'estero per rispondere ai bisogni di un settore tecnologico che ha creato più società del Canada al Nasdaq di New York coprendo il 30% delle esportazioni del paese.
Questo non deve nascondere le molte deficienze sociali di Israele e la grande diversità dei salari specie sul mercato finanziario. Ma una cosa è aver registrato un aumento del 43% del numero dei milionari (Haaretz 24.6.2010) in due anni in un paese sottosviluppato. Un'altra è averlo registrato in un paese industrializzato, democratico, che ha scoperto, dopo 50 anni di vane ricerche, depositi energetici importanti. La molla del cambiamento politico e strategico di Israele è nella sua trasformazione entro il 2015 in esportatore di gas.
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