«Miscalculation», errore
di calcolo, da qualche mese
la parola inglese è la più
pronunciata, la più ripetuta
nei comandi israeliani. Una
«miscalculation» può far
scoppiare la guerra. Il rischio
di una «miscalculation
» rende impossibile
un’offensiva su vasta scala
controHamas a Gaza. La paura
di una «miscalculation»
consiglia una campagna di
sensibilizzazione per spiegare
all’opinione pubblica come
comportarsi in caso di
guerra con Siria, Iran ed
Hezbollah.
Ma dietro le diverse declinazioni
di «miscalculation»
si nascondono soprattutto le
incertezze e le paure lasciate
in eredità dai 34 giorni di
guerra della scorsa estate.
Quella guerra, tutti lo sanno,
non è veramente finita,
si è solo interrotta, può riaccendersi
da un momento all’altro.
Quel che è peggio
può riprendere senza che
nessuno in Siria, Libano o
Israele lo voglia veramente.
Basta una scaramuccia di
frontiera, bastano alcuni colpi
sparati per errore a un reparto
siriano, basta un aereo
intercettato per
sbaglio da un nuovo
missile di Damasco.
Nell’attuale stato di
allerta e progressivo
riarmo dei tre confini
un’imponderabile
quanto trascurabile
«miscalculation» rischia,
insomma, di
far saltare in aria l’instabile
polveriera.
Gabi Ashkenazi, il
nuovo capo di stato maggiore
israeliano, è il primo a saperlo,
il primo a preoccuparsene.
Durante esercitazioni
e addestramenti il suo unico
cruccio è il fronte del Nord.
Lì, ricorda a ogni piè sospinto
ai suoi generali, Tsahal deve
essere pronto a entrare in
azione in ogni momento. Lì
soldati e ufficiali devono esser
capaci di fronteggiare
ogni minaccia, ogni «miscalculation
».
Non a caso uno
scenario importante di “Avnei
Esh 10”, la più cruciale
esercitazione strategica degli
ultimi mesi, prevedeva la
ripresa delle ostilità a causa
di un’imprevista e casuale
bagatella di confine. Non a
caso da settimane l’intelligence
militare e gli analisti
di Tsahal consigliano al premier
Ehud Olmert di evitare
in tutti i modi un’offensiva
su vasta scala nella Striscia
di Gaza.
Quell’offensiva, viste le accresciute
capacità militari di
Hamas e le vaste quantità di
esplosivi, mortai e micidiali
armi anticarro transitate
dal Sinai fino agli arsenali
fondamentalisti, costringerebbe
Israele a impiegare
una quantità così ampia di
numeri e mezzi da lasciare
sguarnito il fronte siriano e
libanese. Per la prima volta
dalla guerra del 1948 Israele
torna, insomma, a soffrire
una sindrome da inadeguatezza,
a temere l’accerchiamento
dei nemici.
È una sindrome più
psicologica che reale,
ma quando l’imprevisto
con cui confrontarsi non è il
numero di cannoni, ma un
banale errore di calcolo, realtà
e apparenza fanno presto
confondersi.
Sul fronte dell’intelligence
nulla fa, in verità, pensare a
una concreta voglia di guerra
di Damasco. La Siria del
presidente Bashar Assad, ripetono
al Mossad, sta solo
completando l’ammodernamento
di esercito e arsenali.
Gli acquisti di nuove armi sono
cospicui, l’intensificazione
dei ritmi di addestramento
è rilevante e l’incremento
delle manovre è significativo,
ma nulla segnala un attacco
imminente.
La Siria,
secondo il Mossad, starebbe
insomma procedendo a un
riarmo considerato quasi fisiologico
dopo le tensioni generate
dalla guerra dell’estate
2006.
La paura israeliana di non
poter reggere un doppio
scontro sullo scacchiere di
Gaza e su quello settentrionale
resta, invece, un’ammissione
di debolezza senza
precedenti. Ad aumentare
le incertezze israeliane contribuisce
ovviamente la minaccia
nucleare di Teheran,
ma l’Iran, secondo strateghi
e analisti, non è ancora il
problema principale. Oggi il
grande disagio di Tsahal deriva
soprattutto dalla perdita
nello scontro con Hezbollah,
della più importante
e significativa
arma messa a punto
in 58 anni di guerre.
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