Claudio De Albertis*
Il nostro Paese sta per subire una mutazione epocale, in negativo, che non ha riscontri dal Dopoguerra a oggi. La responsabilità di ciò non può essere attribuita a nessun governo specifico perché trae origine soprattutto dalla debolezza strutturale del sistema politico nazionale che ha reso praticamente impossibili riforme rivolte a dare più efficienza al mercato e più ordine contabile allo Stato. Mentre leconomia mondiale stava cambiando a ritmi vertiginosi, le nostre politiche economiche hanno continuato a seguire i sentieri tradizionali frutto di misure garantiste, di composizione di squilibri settoriali e sociali, di redistribuzione di reddito, di preservazione dello status quo.
Adesso, però, con la globalizzazione, i collanti del sistema stanno saltando uno dopo laltro. Ci accorgiamo di essere un Paese «industrializzato» ma non «industriale» perché scarsa è la cultura di impresa, scarsa è linnovazione, troppi i vincoli al mercato. Ci accorgiamo che ai vecchi e mai sanati dualismi (quello Nord-Sud prima di ogni altro) se ne è aggiunto uno nuovo: il dualismo tra un mercato protetto e garantito e laltro abbandonato a se stesso.
Forse proprio questo è il problema che la classe politica dirigente dovrebbe considerare più importante di ogni altro. Metà del Paese gode di ogni tipo di tutela: sono, a esempio, le corporazioni di interesse protette per legge, il gigantesco apparato pubblico-amministrativo e i nuovi pseudo monopoli pubblici e privati che prendono il posto degli antichi enti economici nazionali ufficialmente «privatizzati». E quando qualche riforma è stata avviata (come quella del lavoro) essa non ha scalfito più di tanto le reti di protezione pur legittimamente presenti. Con la conseguenza che questo blocco di interessi catalizza e assorbe gran parte delle risorse che sarebbero invece necessarie a sostenere lo sviluppo complessivo del sistema. Insomma, cè una chiara correlazione tra lessere liberi ed essere competitivi. Liberalizzare quindi dovrà essere la parola dordine di ogni nuovo governo. Ma non basta. Occorre anche che lo Stato si mobiliti immediatamente per mettere a frutto i due principali «beni di famiglia» di cui ancora dispone. Le città, innanzitutto.
Le nostre città costituiscono un patrimonio artistico e culturale unico al mondo. Investire su questo fronte significa garantirsi ritorni sicuri sul piano della qualità della vita e delleconomia in generale.
Ma se ciò non bastasse, la città è la sede del nuovo sviluppo e delleconomia della conoscenza. È su questo fronte che bisogna ora mobilitare ogni risorsa politica per non perdere la speranza di attrarre o di creare in loco le nuove funzioni produttive della società post industriale prima che anche queste migrino altrove. Un obiettivo strategico, da cui emerge la necessità di un provvedimento legislativo di grande portata, che lAnce propose e che chiamammo la «legge obiettivo» per le città.
Il secondo «bene di famiglia» è il turismo. A fronte di una domanda crescente di accesso ai beni culturali, vi è lofferta di un patrimonio culturale di vastissime proporzioni troppo spesso sotto utilizzato, dal punto di vista delle potenzialità economiche e occupazionali. Valorizzarlo è per la classe politica obiettivo strategico doveroso e raggiungibile.
Contemporaneamente a tale impegno chiediamo al nuovo governo di conservare e migliorare quelle misure adottate nella passata legislatura e che in qualche modo sono a esso coerenti e funzionali.
Faccio riferimento, per esempio, al disegno di legge sulla nuova disciplina urbanistica; alla pronta adozione del codice sugli appalti pubblici; alla conferma ed estensione del regime fiscale agevolativo riguardante le ristrutturazioni edilizie, ecc.
*presidente Ance
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