Premetto: spero di sbagliarmi e invito i lettori a scrivere. Accetto anche insulti stavolta.
Poche sere fa ero invitato a cena, con alcuni amici di vecchia data, a casa di un compagno di liceo. La classica rimpatriata di chi ha condiviso, per anni, giorni di felicità e di angoscia tra i banchi dove si aggiravano severi i prof di lettere antiche alla ricerca di un «pizzino» che viaggiava segretissimo illuminando il compagno disperato su quella maledetta frase intraducibile di Platone. Il padrone di casa aveva promesso una cena vegetariana, suscitando le proteste di chi, senza prosciutto e salame, si sente orfano di padre e madre. Quando dalla griglia, invece delle solite costine e salsicce, sono uscite melanzane e zucchine delicatamente cosparse di aceto balsamico, si è fatto un religioso silenzio e il rumore delle ganasce ha zittito qualunque velleità di risentimento.
Dopo un paio d'ore di rimembranze dei vecchi trascorsi sui banchi, la discussione è finita nelle solite banalità, «le donne, il tempo ed il governo» avrebbe detto il grande Fabrizio. Giunti verso la fine della serata è partita, proprio dal padrone di casa, la provocazione che ha riacceso gli animi.
L'avvocato alza la voce e guardandomi ostentatamente mi dice «Bene Oscar, visto che il clima sarà dolce ancora per pochi giorni vi invito per un'ultima grigliata sabato sera. Vi prometto una cena non meno gustosa. Se non avete preclusioni mentali, voi seguaci di Socrate ed Epicuro, sarò felice di cucinare Chow Chow e Siamesi alla griglia».
Risate di commiserazione per la banalità della barzelletta. Io rido più degli altri. «C'è poco da ridere -afferma serio l'amico avvocato-, tu potrai maledirmi e augurarmi ogni pena dell'inferno, ma non potrai impedirmi questa trimalcionesca serata».
Continuo a ridere, ma lui è serio. Tutti sorridono e mi guardano, quando alzano la mano per garantire la loro presenza. «Vedo che continui a ridere, caro il mio dottore. A questo punto mi userai la cortesia di dirmi perché non possiamo mangiarci un cane e un gatto in santa pace». «Ma perché è vietato», mi viene spontaneo. «Ah, sì -ribatte il leguleio.- E in base a quale legge, di grazia…». «Ma la legge che vieta di mangiare cani, gatti…». «E quale?», ribatte lui sentendo di avermi messo in off- side.
Ora tutti si godono la tenzone. L'avvocato contro il veterinario, per di più giornalista e animalista. Penso velocemente. Maledizione, ci sarà pure una legge… La trovo. «Caro avvocato dei miei stivali, Art. 544 - bis, legge 180: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi”. ora meglio che torni a fornirti di quelle squisite melanzane prima che mi debba incomodare a portarti agrumi nelle patrie galere». «Ma io non cagiono la morte per crudeltà o senza necessità: io ho fame e la cagiono per questo», risponde il principe del foro senza fare una piega. Rifletto velocemente e sento lo scacco matto avanzare. Se la contadina cagiona la morte di un pollo o un coniglio per il pranzo domenicale lo fa con crudeltà? No. Lo fa senza necessità? Beh, sì e no.
Potrebbe mangiare polenta e funghi o spaghetti alla carbonara, è vero, ma chi le impedisce di mettere in padella il pollo allevato accuratamente per mesi all'aria aperta a mais, crusca ed erba medica? E allora perché il coniglio sì e il gatto no?«Proprio quello cui stai pensando -ha chiuso l'avvocato- ti aspetto sabato sera con le manette o con la fame e la curiosità di un vero seguace d'Epicuro».
Qualcuno mi scriva dove sbaglio. Grazie.
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