I nodi vengono al pettine. Sempre. Non può essere certo un caso che, con quattro film italiani su 24 in concorso, la giuria presieduta da Quentin Tarantino abbia deciso di ignorare la nostra non proprio sparuta avanguardia. Il giorno dopo il verdetto che ha consegnato il Leone d’Oro nelle mani di Sofia Coppola e che ha modificato in corsa il regolamento in cui era vietato il cumulo dei premi (Essential Killing di Jerzy Skolimowski ne ha ottenuti due) ci si chiede da più parti se il direttore Marco Müller non abbia completamente sbagliato la selezione italiana di quest’anno.
Il lungo affresco corale sul Risorgimento di Noi credevamo di Mario Martone, l’ermetico (per chi non conosce il romanzo di Paolo Giordano) La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, la commedia troppo grottesca La passione di Carlo Mazzacurati, la messa in scena teatrale di Ascanio Celestini Pecora nera, pur essendo in alcuni casi delle opere importanti (sicuramente quelle di Martone e Costanzo), non erano forse i titoli più adatti per una giura internazionale. Soprattutto se tarantiniana. La sensazione poi, ancora più disarmante, parlando con i due giurati e registi tricolore, Luca Guadagnino e Gabriele Salvatores, è che i titoli nazionali non siano stati nemmeno presi in considerazione. E chissà che non si sarebbero potuti ottenere risultati migliori (peggio di così impossibile) con Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati (magari grazie agli interpreti Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri), scalzato all’ultimo momento dall’esordiente Ascanio Celestini e fonte di grande amarezza per il regista bolognese.
Meglio però rimanere ai fatti. O almeno a come li racconta Gabriele Salvatores: «Io ho cercato di porre all’attenzione della giuria tutte le cose positive dei film italiani. Per un po’ ci si è soffermati sugli interpreti giovani». Poi più nulla, semplicemente l’oblio: «C’era un livello minimo di gradimento che andava superato, gli italiani non ci sono mai arrivati». Possibile? «Nei nostri film ho trovato molti aspetti positivi e li raccomando al pubblico - risponde Salvatores - ma da questa Mostra viene fuori il vero problema del cinema italiano che, a livello emozionale, non passa all’estero». Così si viene a scoprire che La solitudine dei numeri primi «ha confuso un po’ le idee alla giuria che ha faticato a riconoscere i personaggi».
Versione sostanzialmente identica per Luca Guadagnino, il regista dello splendido Io sono l’amore presentato alla scorsa Mostra, bistrattato in Italia ma molto apprezzato all’estero, che si fa una domanda e si dà la risposta: «Gli italiani hanno investito emotivamente la giuria per arrivare ai premi? No». Aggiungendo che «la scelta di Müller di mostrare tanti i film italiani, nell’anno in cui i finanziamenti statali sono bloccati e non si sa se le agevolazioni fiscali verranno prorogate dopo il 31 dicembre, è un atto situazionista». Un po’ come il suo di lanciare un «vaffa... a chi vuole atterrare il cinema italiano che invece è vivo e lotta». Oltretutto, annota con acutezza, «è un segnale di forza l’approccio di Medusa al cinema internazionale con la partecipazione nella produzione del film di Sofia Coppola». Anche Guadagnino rivela un ulteriore tassello per capire la difficoltà della giuria: «Una posizione diversa nel calendario del film di Martone probabilmente avrebbe provocato un atteggiamento diverso». Noi credevamo dura più di tre ore e venti. Che qualcuno abbia faticato a tenere gli occhi aperti?
Da parte sua Marco Müller, il direttore più longevo di sempre, nell’incontro finale di bilancio s’è trincerato dietro lo slogan coniato dal presidente della Biennale Paolo Baratta: «La Mostra è una stella fissa che brilla». La sua edizione, dice, è un successo, i film italiani hanno ottenuto tutta l’attenzione che meritavano anche senza premi e conferma tutte le recenti frecciatine polemiche verso l’Ansa e la direttrice del festival concorrente di Roma Piera Detassis.
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