J’accuse dei cardiologi allo studio P.Re.Val.E. sugli ospedali romani

In questi giorni una fetta considerevole di cardiologi romani è di pessimo umore. A molti, infatti, sono rimaste sullo stomaco le conclusioni contenute all’interno del «P.Re.Val.E.», uno studio della Regione presentato al Sanit che, in breve, si è trasformato nel pagellino dell’assistenza ospedaliera nel Lazio. Le perplessità derivano dall’approccio metodologico impiegato per valutare i dati, essenzialmente poco corretto e dunque ancora meno attendibile, secondo quanto riferisce Francesco Romeo, direttore della cattedra di cardiologia dell’universita di Tor Vergata e della Uoc del Policlinico. Per intenderci non uno degli ultimi classificati in cerca di riscatto mediatico, ma il responsabile di un’unità che, per alcune categorie, ha strappato ottimi risultati.
«Il punto è che hanno fatto di tutta l’erba un fascio - rimarca Romeo - inserendo nello stesso calderone casi che invece avrebbero dovuto essere trattati distintamente o quantomeno parametrati meglio». Per calcolare la media della mortalità per infarto del miocardio acuto a trenta giorni dal ricovero, per esempio, ci si è basati sulle Sdo, le schede di dimissione ospedaliera «che - continua il professore - mescolano infarti con varie patologie, senza nulla dire sulla complessità del singolo caso, per non parlare delle variabili esterne. Peggio, non si esprimono dati reali ma elaborazioni statistiche basate su algoritmi che prendono in considerazioni variabili correlate con la mortalità. È esattamente il contrario di quanto dice la letteratura mondiale degli ultimi trent’anni».
In pratica significa che a determinare le statistiche (alcune vicine al 25 per cento di mortalità) concorrono pure le operazioni effettuate dal chirurgo, gravi malattie del paziente (“penso a una leucemia in fase avanzata”), i ritardi del pronto soccorso e persino i trasferimenti da altre strutture. «Farò due esempi per chiarire meglio la questione: se un anziano muore non appena mette piede in reparto, quel decesso viene imputato a noi; se, come è successo questa notte, un cardiopatico arriva da Palombara Sabina con sette ore di ritardo in condizioni a dir poco pessime, va a sempre a intaccare la nostra percentuale di efficienza».
Ancora più tagliente è il giudizio di Francesco Fedele, direttore del dipartimento di cardiologia del Policlinico Umberto I e presidente uscente della Società italiana di cardiologia: «La ricerca si è trasformata in uno spot pubblicitario per alcuni e in una penalità per altri. I dati andavano discussi in maniera approfondita nel corso di un tavolo tecnico prima di essere resi pubblici. Nel nostro caso, tanto per capirci, il 35 per cento degli infarti non viene trattato in cardiologia, dunque manca un percorso serio, che permetta di seguire il paziente fin dall’inizio». Le contraddizioni non finiscono qui: a Tor Vergata, secondo un altro studio sempre della Regione, il “Progetto Inca-In”, i decessi intraospedalieri si sono fermati al 3 per cento, dunque sono significativamente inferiori rispetto a quanto dice il “P.Re.Val.E.”, che pure considera un intervallo di 30 giorni dal primo accesso o dall’intervento. «Non riescono nemmeno a mettersi d’accordo tra di loro», si rammarica Romeo prima di aggiungere: «Da quello che ho potuto verificare personalmente la mortalità è inferiore del 2 per cento. I nostri dati sono i più bassi del Lazio e quasi sicuramente d’Italia, chiunque può venire a verificare di persona, le porte sono aperte. Ma la mia preoccupazione è un’altra: così si trasmettono messaggi distorti alla gente, anziché intervenire per migliorare le strutture e la logistica».

Inevitabile che dalle parole si passi ai fatti: «Vorrei, anzi vorremmo che questo studio venga smentito. Intanto ho provveduto con i miei legali a diffidare sia chi lo ha curato che il presidente Marrazzo, ovvero il responsabile della sanità pubblica regionale».

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