Sorprendente Jannuzzo che non cessa di stupire. Si sono appena spenti gli echi del Divo Garry che eccolo di ritorno con la fiocina del capitano Achab allegramente puntata verso lo spettatore con limpeto di El Cordobés. Basta infatti che si presenti sul palcoscenico perché il terreno su cui posa i piedi si tramuti nellarena sabbiosa di una Plaza de Toros. E gli strali acuminati che gli escono di bocca diventino più acuti e pungenti delle banderillas che, ai tempi beati di Hemingway, gli atleti della corrida conficcavano nelle carni frementi della loro vittima a quattro zampe.
È ciò che accade in Girgenti, amore mio, lo show in scena al teatro Manzoni di Milano che si è sapientemente cucito addosso riandando al paese perduto della memoria. Ricco di souvenir che addirittura risalgono alletà felice del Gran Maestro del suo paese natale, Luigi Pirandello, nelle farse dialettali che gli uscivano dalla penna. Come un prestigiatore lieto di esibire al pubblico la sua irresistibile abilità, Jannuzzo estrae dalla bisaccia del tempo perduto, quello dellinfanzia, quello dei primi amori e quello dei curiosi personaggi che si vantavano in agrigentino schietto di aver avuto ragione delle femmine più virtuose, le dolci parlate della sua terra natia. E soprattutto, da una boutade allaltra, fa risuonare quegli accenti più morbidi che morbosi che alludono nello spazio di pochi minuti, a tragedie familiari e a tremendi complotti.
Da affabulatore nato, dimostra con la pazienza di un filologo e lallegria sopraffina del comico di razza che per tracciare labbozzo di una passione o il dolore di uno scoramento non cè bisogno di sprecare ore di pianto e neppure soprassalti di riso. Basta un guizzo sulfureo ed ecco lamante appassionato, eroe delle favole del paese, trasformarsi in un poveruomo costretto dallo stillicidio del tempo ad accattare favori dalle tardone allontanate con astio solo pochi anni prima.
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