Il jazz italiano conquista New York

Trasferta di successo, ma per le prossime cambiamo la squadra

Franco Fayenz

da New York

È assai gratificante che il jazz italiano, dopo un passato remoto di anni bui e di male parole rimediate all’estero ma anche in patria, vada ora in trasferte difficili (America, Australia) e torni vincitore. Lo accompagna l’organizzazione di Umbria Jazz che in tal modo riscatta (non del tutto) la fase in cui, a Perugia e dintorni, il jazz nazionale non era di casa.
È appena terminata, nella Grande Mela, una settimana in cui ha tenuto banco il Top Italian Jazz, occupando un locale dal nome illustre, il Birdland intestato a Bird, il soprannome di Charlie Parker, che adesso si trova nella Quarantaquattresima. Hanno suonato, ciascuno per due sere, il trio di Dado Moroni con Peter Washington e Lewis Nash; il quartetto di Giovanni Tommaso con Paolo Fresu come ospite; il trio di Enrico Pieranunzi con Marc Johnson e Paul Motian; il quintetto di Enrico Rava; il trio di Stefano Bollani con Jesper Bodilsen e Morter Lund; il quartetto di Francesco Cafiso. La maggiore attenzione degli intenditori, se non altro per un fatto numerico, è andata ai tre pianisti, Moroni, Pieranunzi e Bollani. Qualcuno ha tentato una classifica di merito, sebbene occasionale, ma non c’è riuscito perché i tre veleggiano di certo a livello internazionale, ma non sono confrontabili. Moroni, per chi lo segua da una ventina d’anni, è il più eclettico: un virtuoso di tecnica e di suono robusti che si trova a proprio agio in qualsiasi situazione, perfino con collaboratori incontrati sul momento. Per dirla con gli americani, è il più jazzy. Bollani (difficile dire a chi somigli, ormai: meglio per lui) sembra sfiorare la tastiera con deliziosa agilità, e ha due collaboratori scandinavi che lo seguono con molta convinzione.
Pieranunzi, che come Bollani vanta un pedigree classico di prim’ordine, arriva invece all’espressione come uno scultore di suoni che medita e scava nel profondo. Il suo trio newyorchese era completato da due musicisti che in tempi diversi hanno lavorato con Bill Evans: Marc Johnson al contrabbasso e Paul Motian alla batteria. Ebbene, Pieranunzi non ha fatto rimpiangere per nulla Evans, il maestro dei suoi anni giovanili, pur non imitandolo affatto. È questo l’elogio migliore che gli si possa rivolgere. Fra i tavoli del Birdland si è detto che oggi Pieranunzi è il numero uno al mondo. Prendiamo nota.
Jazz molto efficace e di consumata esperienza è venuto da Enrico Rava e dal gruppo di Giovanni Tommaso, illuminato dalla partecipazione di Paolo Fresu. Qualche perplessità ha suscitato, questa volta, Francesco Cafiso. Il sassofonista siciliano compirà a maggio appena diciott’anni.

Per chi lo segua con affettuosa attenzione, Francesco si è affidato troppo a composizioni proprie e a brillantezze formali che sono andate a scapito dell’intensità. Vogliamo lasciarlo riposare un po’, visto il tempo enorme che ha davanti? E vogliamo, per il prossimo futuro, cambiare un po’ i cavalli, per quanto di razza? È questa l’unico neo in una trasferta riuscita.

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