MilanoIl progetto - così lo definiscono i magistrati - era quello della «Jihad globale». Una rete internazionale di estremisti islamici pronti anche al martirio contro gli «infedeli». Una struttura organizzata in cellule locali e in grado operare su scenari internazionali. Un progetto che passava dai centri culturali, dalle moschee, dalle carceri. Unopera costante di proselitismo e indottrinamento, di finanziamento, reclutamento e appoggio ai «volontari» della guerra santa. Così, a processo finiscono 23 tra tunisini, algerini e marocchini arrestati dai carabinieri del Ros nel novembre di tre anni fa con laccusa di terrorismo internazionale. I «ragazzi», così si chiamavano tra loro i membri dellorganizzazione erano riuniti in «compagnie», diffuse in Italia (a Milano, Reggio Emilia, Perugia, e in Sicilia), in Europa (Francia, Gran Bretagna, Spagna, Romania, Svizzera), in Algeria, Siria ed altre aree del Medioriente. E, ieri, il procuratore aggiunto Armando Spataro e il pubblico ministero Nicola Piacente hanno chiesto la condanna fino a 10 anni di reclusione per 21 imputati (due le richieste di assoluzione) accusati di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo internazionale.
La cellula, secondo laccusa, gestiva sullasse Milano-Reggio Emilia la rete del terrore. Dal capoluogo lombardo, in particolare, avrebbe inviato martiri in Irak e in Afghanistan, finanziandosi attraverso il favoreggiamento dellimmigrazione clandestina e lallargamento del gruppo attraverso documenti di propaganda, dvd, videocassette inneggianti alla Jihad diffusi nelle moschee, come quelle di viale Jenner e via Quaranta a Milano. Lì, oltre alle preghiere e agli incontri tra i fedeli di Allah, cera spazio per sermoni che esaltavano il martirio, cerano volantini che celebravano lintegralismo islamico. Unopera di proselitismo che continuava anche nei centri di preghiera di altre città lombarde e dellEmilia, e persino in carcere. Era quello - secondo la Procura - il terreno per coltivare le nuove leve dellestremismo.
Davanti ai giudici della prima corte dassise, il procuratore aggiunto Armando Spataro e il pubblico ministero Nicola Piacente hanno ricostruito la rete dellaffiliazione, e hanno chiesto la condanna a 10 anni di reclusione per il tunisino Sabri Dridi, accusato di essere il vertice della cellula salafita nonché il capo della «compagnia di Milano» e di agire «con funzioni direttive ed organizzative nellambito della propria cellula e con riferimento alle altre compagnie», attive a Reggio Emilia e in Liguria. I magistrati, poi, hanno chiesto anche la condanna a 8 anni per Imed Zarkaoui, che - stando alle indagini - teneva «i contatti con componenti dellassociazione operanti allestero», in Francia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, Romania, Algeria e Siria. Gli imputati, secondo gli inquirenti, progettavano l«instaurazione del Califfato unico». Per gli altri imputati, inoltre, la Procura ha invocato pene tra i 3 anni e 4 mesi e i 8 anni di reclusione. Il gruppo, ricostruiscono i magistrati, avrebbe avuto a Milano le «sedi decisionali e strutture logistiche utilizzate anche per la falsificazione di documenti, lagevolazione dellingresso illegale nella Ue di cittadini extracomunitari e il reclutamento di volontari». E proprio grazie a «unarticolata attività di agevolazione dellimmigrazione clandestina» erano in grado «di reperire finanziamenti» e di «facilitare linvio di volontari in Irak e Afghanistan».
Il giorno degli arresti, ormai tre anni fa, i carabinieri del Ros sequestrarono manuali di Al Qaida per la produzione di esplosivi, sistemi di innesco elettronici e veleni, istruzioni su tecniche di guerriglia. Nelle 660 pagine di richiesta di arresto, i magistrati avevano inoltre sottolineato come «sarebbe riduttivo circoscrivere la condotta degli indagati a una mera adesione al jihad e a un impegno a reperire proseliti».
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