Joachim Fest, lo storico che non temeva Hitler

Non ebbe paura di affrontare il «lato oscuro» delle vicende e della tragedia tedesca, indicando anche le colpe dei vincitori

A chi - intervistandolo e cercando di attizzare una polemica tutta italiana - alludeva a un suo «sospetto» revisionismo, Joachim Fest rispondeva nel modo più semplice e sensato: «È revisionista tutta la storiografia, che viene scritta a posteriori». Né sentiva la necessità di aggiungere (gli sembrava ovvio) che ogni progresso nello studio di qualsiasi materia è di per sé revisionista.
Il grande storico scomparso ieri era nato a Berlino il 6 dicembre 1926. Aveva studiato diritto, sociologia, storia dell’arte, germanistica e storia, ma come mestiere scelse il giornalismo che lo portò a diventare, dal 1973 al 1993, condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung. In quell’incarico pubblicò nel 1983 l’articolo di Ernst Nolte Un passato che non vuol passare, con tesi sul nazismo e l’Olocausto attaccate da tutta la sinistra come revisioniste e giustificazioniste.
Amava dire di essere nato, come storico, quasi per caso: gli chiesero di occuparsi del nazismo da giornalista, e finì per pubblicare Il volto del Terzo Reich. Profilo degli uomini chiave della Germania nazista, uscito in Italia nel 1963 (Mursia). Il libro, di grande successo, fu seguito dal fondamentale Hitler. Una biografia (1973), ripubblicato in versione aggiornata e ampliata da Garzanti nel 2005. Entrambi i saggi sono pietre miliari della storiografia sul nazismo, anche perché - sosteneva modestamente Fest - era stato fra i primi della generazione posthitleriana, a scriverne le vicende, e quindi si sentiva in grado più dei suoi predecessori di «confrontarcisi apertamente, di studiarlo e trarre conclusioni storicamente corrette». Tradotta in decine di lingue e diffusa in milioni di copie in tutto il mondo, la sua biografia del Führer rimane l’opera di riferimento per capire il «caso Hitler». Partendo da un’enorme mole di materiali, Fest affronta e scioglie i nodi essenziali dell’ascesa e del trionfo di Hitler, fino al delirio autodistruttivo in cui trascinò tutto il popolo tedesco.
È inevitabile il richiamo al lavoro svolto su Mussolini, in Italia, da Renzo De Felice. Il Führer fu, per Fest, un «personaggio incivile, senza scrupoli, al cui confronto lo stesso Mussolini era una persona ammodo». Ma nella polemica annosa sulle responsabilità dei gerarchi nazisti (sua anche una biografia di Albert Speer) dimostrò, che tutti i più importanti sapevano e parteciparono coscientemente ai progetti hitleriani, compreso lo sterminio degli ebrei. E che anche il popolo tedesco ebbe le sue responsabilità. Tuttavia Fest non esitò mai a indicare le colpe dei vincitori della prima guerra mondiale e del trattato di Versailles, che umiliò i tedeschi portandoli a rifiutare sia la colpa di quella guerra sia il peso della sconfitta. In un’intervista recente aggiunse che è fin troppo facile dare la colpa al popolo tedesco e che l’intera Europa è responsabile di quel che accadde, compresa la Chiesa cattolica, che non si schierò con abbastanza forza contro il nazismo e i suoi crimini. Giudicava anche criticabili gli inutili bombardamenti alleati di Dresda e di Palermo.
A causa di tutto ciò, sosteneva Fest, per molti anni dopo la guerra il popolo tedesco preferì dimenticare l’orrore passato, lasciandoselo alle spalle, fino all’arrivo di studi come i suoi. Ma anche oggi, sottolineò nel 2004, la Germania si misura con il suo passato recente «in modo superficiale, banale, moralista; i giovani ne hanno piene le scatole, sono annoiati dal continuo sentirsi ripetere parole quali Olocausto, Auschwitz»: anche per colpa di una storiografia sempre più elitaria e lontana dalla gente comune.
Proprio per questo motivo fu felice del successo del film La caduta, di Oliver Hirschbiegel (2004), tratto dal suo saggio La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich (Garzanti). Nel film, come nel libro, ogni scelta era basata sulla certezza storica dei fatti, sullo studio di diari, memorie di testimoni, documenti ufficiali. In un articolo pubblicato nel 2005, quasi a chiosa di tutto il suo lavoro, Fest scrisse che il suicidio di Hitler potrebbe apparire una fuga dalle sue responsabilità, dal presente e dal giudizio dei contemporanei, dalla storia e dal futuro. «Ma non fu così. Assolutamente no». Quando Hitler decise di togliersi la vita, non fu mosso dalla coscienza di qualsiasi colpa, né temeva il giudizio del mondo.
Hitler si suicidò, «in un gesto estremo di coerenza con il suo darwinismo sociale, con la sua Weltanschauung e la sua filosofia della storia. Si suicidò perché si vide sconfitto con tutta la Germania, si sentì condannato al destino dei deboli, dei popoli inferiori, delle razze inferiori. È quasi come se, togliendosi la vita insieme ad Eva Braun, egli avesse riletto e riscritto le pagine del suo Mein Kampf». La storia, aveva scritto il Führer, è fatta dai popoli forti e vincitori: i deboli, i perdenti, non hanno diritto né alla vita né alla pietà. I deboli devono venire sradicati e sparire dal mondo. «Una filosofia spietata, le cui conseguenze egli non volle risparmiare a se stesso e al suo popolo».
L’ultimo saggio di Fest è uscito in Italia quest’anno, da Garzanti: Incontri da vicino e da lontano. Da Thomas Mann a Hannah Arendt, da Ernst Jünger a Ulkrike Meinhof.

A proposito di questa serie di «incontri», Fest ha scritto che solo durante la stesura del volume gli è apparso chiaro che Hitler non ha perduto il suo «potere catalizzatore»: oggetto di analisi come quasi nessun altro personaggio nella storia, il Führer non ha ancora «assunto tratti storicizzati e si protende invece in modo sempre più insistente nella contemporaneità. E il suo impatto dirompente rimane intenso quanto la sua funzione di riferimento».
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