Joan Baez: una voce folk senza età

Antonio Lodetti

Cara vecchia Joan Baez, sempre uguale e sempre diversa, sempre lì a lottare per la pace e i diritti civili. Il mondo gira ma le offre sempre nuovi motivi per cavalcare la protesta; un tempo era il Vietnam, oggi è l’Irak (dove tra l’altro ha vissuto da ragazzina) o il nuovo razzismo. Così lei ha pubblicato il cd dal vivo Bowery Songs ed è partita in tournée, affrontando in Italia teatri strapieni come L’Arcimboldi di Milano e L’Auditorium di Roma, con un pubblico di tutte le età ad acclamarla, a cantare in coro i testi delle sue canzoni. Al suo fianco solo due musicisti si alternano alle chitarre, al basso, al mandolino. Lei è al centro della scena; completo jeans e lunga sciarpa, capelli corti e ingrigiti, occhi luminosi e voce sempre fresca e squillante (anche se alcuni brani, come il suo inno di Woodstock Joe Hill, li affronta senza forzare i toni) pronta a dispensare emozioni. La platea agli Arcimboldi è completamente nelle sue mani, anche se Joan fa tutto tranne che spettacolo. Si prende il suo tempo tra un brano e l’altro, riaccorda pazientemente ogni volta la chitarra, introduce le canzoni con un piccolo significativo preambolo.

È l’interprete della tradizione che si fa attualità, e nella sua magica alchimia mescola il Bob Dylan di Farewell Angelina e della profetica e quanto mai moderna With God On Our Side e il ribelle Steve Earle di Christmas in Washington (che implora «Come back Woody Guthrie») o ancora il dimenticato Mauro Lusini (quello di C’era un ragazzo...) di Un mondo d’amore. E i fantasmi della ribellione anni Sessanta si fondono con il malessere di oggi in due ore di musica intensa e vibrante.

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