Johnstone, il piccoletto che beffò la grande Inter

Geniale re del dribbling, accanito bevitore di birre, trascinò gli scozzesi nell’eurofinale del ’67

Tony Damascelli

«Papà ci ha salutato alle sei di stamattina. Ha finito di soffrire». James Johnstone, di anni trentacinque, così ha detto agli amici e al mondo di suo padre Jimmy, la leggenda del calcio scozzese, morto a sessantuno anni, dopo una malattia che gli aveva preso il cervello e il corpo tutto. Jimmy Johnstone, per i contemporanei, vuole significare poco, forse nulla. Jimmy era detto Jinky che è un soprannome britannico di difficilissima traduzione, sgusciante, dribblatore, non servono a completarne il significato. Jimmy Johnstone giocava da ala, così accadeva nel football di un tempo per i tipi piccoli e veloci come lui. Aveva i capelli rossi come la birra bitter che ingoiava a barili. Jock Stein, che fu il suo allenatore nel Celtic e nella nazionale scozzese, sapeva dove trovarlo alla vigilia delle partite. Non c'erano ritiri e allora Stein prendeva il telefono e faceva il giro di tutti i pub di Glasgow: «Posso parlare con mister Johnstone, please. Sono un amico e so che è lì».
Jinky andava alla cornetta e doveva sentirsi suppergiù questa cantilena: «Brutto disgraziato, quanta birra hai bevuto? Vieni via, domani si gioca, vieni via». Jock Stein aveva la voce arrugginita dall'incacchiatura, Jinky, zigzagando come era uso fare in campo, recuperava Old Edinburgh Street, al civico 647 dove sua madre Sarah e suo padre Matthew avevano messo al mondo la creatura. Jimmy era piccolo e fragile, da bambino calzava le scarpe da minatore del padre, con quelle calciava il pallone. Non erano anni bellissimi per Viewpark, nel Lanarkshire e per tutta la Gran Bretagna. Jimmy era nato il trenta di settembre del Quarantaquattro, nell'aria di carbone, con i fumi e il sangue della guerra addosso, i cuori coraggiosi di Scozia erano in prima linea quando si trattava di affrontare il nemico, poi arrivavano i prodi inglesi.
Jimmy frequentava la St. Columba's Primary school, nonostante la statura riusciva a fare fessi i compagni di scuola, gli bastava un metro per infilarli in dribbling anche dando un calcio a una scatola vuota di fagioli al pomodoro. Venne il Celtic, il club dei cattolici di Glasgow, fu l'inizio della storia, il 27 marzo del Sessantatrè contro il Kilmarnock. La maglia a righe orizzontali, verde e bianca, nessun numero, nessuna scritta, bastava lo stile per riconoscere chi correva, chi dribblava, una semplice cifra sul pantaloncino per agevolare l'arbitro. Seguirono altre 514 partite, 129 gol, 9 titoli di Scozia, 1 coppa dei Campioni, 4 coppe nazionali, 5 di lega, 23 presenze in nazionale che in Gran Bretagna si chiamano «cap», perchè ogni presenza viene celebrata con un cappellino, tipo quello di Qui-Quo-Qua, di velluto blu e a coste argentee, sul quale sta scritto il nome della squadra avversaria e l'anno. Questo in Inhilterra, in Scozia, per tener fede alla nomea, un cappellino ogni presenza.
Jimmy Johnstone avrebbe meritato altro, resta l'immagine di quella finale a Lisbona contro l'Inter. Nel tunnel dello stadio La Luz, Jinky stava di fianco a Facchetti: «Come facciamo a vincere contro questi giganti e pure belli?» disse Johnstone ad Archie Gemmill. I giganti le buscarono, Jinky alzò la coppa nel cielo di Lisbona.

Vennero anni meno dolci, Jinky andò a giocare in California, poi allo Sheffield United, al Dundee, allo Shelbourne per chiudere con l'Ergin City. La malattia prese a scuoterlo, Stein se ne era andato prima di lui. Il telefono del pub continua a squillare.

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