DA JOUMANA HADDAD, CHE SI ISPIRA ALLA LILITH BIBLICA, A FAWZIYYA ABU KHALID, «INDECENTE» ANTIMASCHILISTA

A leggere i versi delle poetesse arabe tradotte (e illustrate) da Valentina Colombo nella sua nuova antologia Non ho peccato abbastanza (Mondadori, pagg. XXXVIII-286, euro 9) sembra di navigare in un mondo sconosciuto, alieno agli stereotipi correnti sui Paesi islamici che celano pensieri e desideri femminili dietro il velo del niqab e della censura morale.
Ci si chiede come possa per esempio Zhabya Khamis scrivere liberamente versi come questi: «Le sue labbra sognano l’ardore del bacio/ le sue ginocchia due baci distinti/ il capezzolo sogna qualcuno che lo succhi con passione/ il collo sogna qualcuno che lo abbracci con tenerezza dolorosa». E infatti, lei che ha studiato all’Università dell’Indiana e poi a quella del Cairo, per via dei suoi scritti è stata incarcerata per cinque mesi senza processo nel suo Paese, gli Emirati Arabi. Non ho peccato abbastanza è il seguito di un altro libro, Parola di donna, corpo di donna (Mondadori, 2005) nel quale Valentina Colombo, che da tempo si dedica alla divulgazione della letteratura araba femminile in Italia, aveva tradotto racconti di scrittrici arabe, anch’esse molto spregiudicate. La figura centrale di Non ho peccato abbastanza è la poetessa e scrittrice Joumana Haddad. Giovane, libanese, cristiana, poliglotta (parla sette lingue), si ispira alla figura mitologica di Lilith, citata nel libro di Isaia come prima moglie di Adamo, cacciata dal paradiso e trasformata successivamente dalla tradizione mesopotamica in un demone notturno che tormenta il sonno dei bambini maschi.
In Io sono una donna Joumana Haddad (che il 10 novembre sarà alla manifestazione Alba Libri con la poetessa siriana Maram al Massri per presentare il libro di Valentina Colombo e dedicare una giornata di poesia araba alla memoria di Hina Saleem, uccisa dal padre a Brescia nell’agosto del 2006) descrive bene la sua idea di libertà femminile. «Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà fosse una loro concessione e ringraziassi e obbedissi, ma io sono libera prima e dopo di loro, sono libera nella vittoria e nella sconfitta. La mia prigione è la mia volontà! La chiave della prigione è la loro lingua ma la loro lingua si avvinghia intorno alle mie dita del mio desiderio e il mio desiderio non riusciranno mai a domare».
I versi delle poetesse arabe ruotano principalmente intorno a due temi, trasgressione e sensualità, che per noi sono forse scontati, ma che nei Paesi islamici sono un tabù inviolabile. Soprattutto nelle regioni dove l’ideologia tradizionalista e oscurantista wahabita obbliga le donne a sottostare ai precetti coranici, considerati inappellabili e inconfutabili. Trasgressione, eros, quindi, ma non solo. La poesie in prosa di Maiun al-Saqr al-Qasimi, pittrice oltre che poetessa, che vive negli Emirati Arabi contengono una lirica dedicata all’amore difficile da ignorare, ma il perno dell’antologia è ovviamente la ribellione allo sciovinismo e alla censura sociale.
Come quella di Fawziyya Abu Khalid, attaccata in Arabia Saudita per essersi scoperta il capo e aver letto poesie in pubblico. Bandita dall’Università di Riyad nel 1996, nonostante ciò non ha smesso di comporre versi «indecenti» di ribellione contro la figura maschile.

«Ahimè ho scoperto/ che la tua spina dorsale/ era solo una colonna di nebbia gelata/ nello specchio orientale di Narciso e tu: niente/ più di un messaggero del Sultano/ un altro ruffiano che osanna le virtù dei frutti della mezzaluna fertile», ha scritto. Parole e versi che possono significare qualcosa solo se si conosce un proverbio saudita che dice: «Rompi una costola a una ragazza e ne ricresceranno dieci».

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