Cultura e Spettacoli

Jude Law non salva Rage, il film girato con il telefonino

Anche Judi Dench nella pellicola quasi senza trama, presentata al Festival di Berlino. Gli interpreti inquadrati solo in viso per due lunghe ore

Jude Law non salva Rage, il film girato con il telefonino

Berlino - Catena di monologhi, spacciate per interviste di un giovane blogger e registrate su telefonino, Rage (Rabbia), scritto e diretto da Sally Potter, vuol dire molto sulla società della moda a New York. E in effetti dice, dice, dice, senza mostrare niente: Rage pare un programma radiofonico su pellicola, con gli interpreti inquadrati da una macchina da presa fissa (il «telefonino»).

Il direttore del Festival di Berlino, Dieter Kosslick, ha finto di credere che anche questi sia cinema e ha ammesso in concorso Rage. Che però non dà allo spettatore nulla di ciò che promette una trama, apparentemente simile a quella del Diavolo veste Prada.

Quando non si hanno i mezzi per un film, perché girare una serie d'immagini fisse e sostenere che formano un film? «Cinema» è movimento, ma qui a muoversi sono solo i testoni degli interpreti, che uno alla volta occupano tutto lo schermo per quasi due ore. In questa penuria, serve a poco disporre di un buon testo e nomi noti, come Jude Law (truccato da donna), Judi Dench e Steve Buscemi (truccati da loro stessi).

Solitamente la prima domenica serve ai grossi Festival per programmare i film più attesi. Ma quest'anno è di quaresima già manifesta, così a Berlino non sono confluiti divi nemmeno ieri. Non s'è visto neanche Jude Law, che è solo un quasi-divo...

Così è rimasto ancora più spazio per il genere penitenziale, che sempre ieri ha offerto la più ampia platea di stampa allo svedese Lukas Moodysson con Mammoth (Mammut), anch'esso in concorso. Qui un attore che vive di grossi Festival, Gael Garcìa Bernal, affianca la vedova di Heath Ledger, Michelle Williams, in una storia pensata per ricordarci che il benessere di molti in Occidente è scontato dal malessere di troppi in Oriente. La storia si dipana, lenta lenta, fra New York, dove rimane lei, medico al pronto soccorso dove giungono bimbi pugnalati dalle madri, che vive con la figlioletta, alla quale teme di non dedicarsi abbastanza; Bangkok, dove finisce lui per lavoro, finendo con l'annoiarsi e soffrire di solitudine; e Manila, dove stanno i figlioletti - anche loro solitari - della cameriera di lei. Su ognuno incombe il dramma, e pazienza. Il problema è che tutti questi drammi incombono sullo spettatore, tenuto a farsene carico e a vergognarsi d'esistere.

In fondo il cinema di Moodysson si riduce a questo: dare un senso di colpa a chi non sta (ancora) male.

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