Da Julia a Gwyneth cento star e una voce sola

«Come va?», «Bene», «E come stai?», «Bene», «E da quando siamo partiti che mi dici solo bene: potresti cambiare parola?», «Stronzo», «Era meglio bene...». Cristina ha una voce sola ma tanti volti, uno più indimenticabile dell'altro. È stata tante donne nella vita che nemmeno lei le ricorda tutte: la Geena Davis di Eroe per caso, la Meg Ryan di C'è posta per te, la Gwyneth Paltrow di Seven. Ma solo Julia Roberts è diventata lei, la sua gemella diversa, praticamente la stessa persona: «Non ci siamo mai conosciute. E non è detto che ci conosceremo mai». Erano una dentro nell'altra, minigonna e tacchi alti, sull'Hollywood Boulevard di Beverly Hills ad aspettare Richard Gere, in Pretty woman: «Come va?», «Bene», «E come stai?», «Bene». Ma sono inseparabili da sempre, una specie di matrioska l’una dell’altra: in Erin Brockovich, in Mary Reilly, in Tess Ocean di Ocean Twelve, cioè Julia Roberts che si faceva passare per Julia Roberts.
Cristina Boraschi vive nell'ombra, cambiando continuamente identità, pochi conoscono il suo vero volto, nessuno sa dire quale dei suoi personaggi le somigli veramente. Il suo è un mestiere misterioso, affascinante, «un male necessario» dice lei, un'arte riservata a pochi che si chiama doppiaggio. È lei, da anni, è la numero uno. Pensare che c’è arrivata per caso, con una laurea in Storia del Cinema da spendere, almeno così sognava, dietro la macchina da presa: «Volevo diventare regista, ma mi ero iscritta a un corso di recitazione. È stato lì che mi innamorai delle voci: un colpo di fulmine».
A portarla nella prima camera oscura è stato un insegnante della scuola Fersen. Nemmeno a farlo apposta era un mimo, un attore senza voce. Anche la sua, come quella di Pretty Woman, è stata una specie di favola moderna: «Dicevano che quello dei doppiatori fosse un mondo esclusivo, dove era impossibile entrare: invece un provino qualsiasi ha cambiato la mia vita. Cercavano una voce giovane per doppiare un'attrice francese in un film con Virna Lisi, ne avevano provate centinaia, quando mi presentai ormai erano tutti rassegnati, non ci credevano più. Invece dissero: è lei. Come con la scarpetta di Cenerentola».
È stata molte donne ma non tutte le sono piaciute. Con Sandra Bullock va così così («è una che sbuffa troppo per i miei gusti»), Calista Flockart invece le piace moltissimo. La sola che ha incontrato, viso da una parte, voce dall'altra, è Irene Jacob «una ragazza veramente deliziosa». Eppure Julia Roberts sotto sotto avrebbe voluto essere un'altra: «Michelle Pfeiffer, la donna perfetta. Ma purtroppo parla con la voce più bella della mia generazione, Emanuela Rossi. Persino io mi farei doppiare da lei...».
Da anni vive a Parigi «la mia tana e il mio rifugio», ma della sua Milano Pretty Woman ha sempre nostalgia: «Le mie radici sono lì. Abitavo in via Carroccio, all'angolo con via De Amicis, la mia parrocchia era Sant'Ambrogio. L'ho lasciata quando è morto papà. Non c’è angolo al mondo però dove rinuncerei a un ossobuco con il risotto». Vive con due gatti, Gaudì e Modì, non ama né i computer, né la musica «ma solo perché non ho tanto orecchio musicale», studia ancora ma per laurearsi in Criminologia «con tutti i polizieschi che ho girato però a volte ne so più io dei miei insegnanti...», divora film su film, rigorosamente in lingua originale. «Ho un record personale di 26 film visti in 21 giorni». Di uscire dall'ombra neanche a parlarne: «Sono troppo timida per metterci la faccia», le basta essere il miglior soprano del doppiaggio, anche se confessa: «All'inizio, quando andavo al cinema, nemmeno riconoscevo la mia voce, pensavo sempre di essere stata ridoppiata. Ancora ora, se provo a fare scherzi fingendo di essere la Roberts, nessuno ci casca. Mi dicono: ma dai, sarà mica la sua voce...».
Ha recitato in centinaia di film ma solo una volta si è commossa: «Era una serie tv, recitavo la parte di un avvocato con un fidanzato avvocato. Poi un giorno qualsiasi lui muore, così, all'improvviso, durante un'arringa. Nessuno mi aveva detto niente. Eravamo insieme da così tante puntate che ci sono rimasta male». Alla Roberts ha regalato tutto: le sfumature, il timbro, il tono, le pause, il carattere.

Ma negli anni Ottanta a lei, come ad altri colleghi, è toccato doppiare pure film porno: «Era difficilissimo: a forza di fiati e sospiri, rischiavo sempre di finire in iperventilazione». Anche lì non era male. Ma era meglio bene...

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