Kabul, decapitato il militare Usa che cercava Osama

Kabul, decapitato il militare Usa che cercava Osama

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Non c’è stato un lieto fine per il «giallo afghano», la vicenda dei soldati dei corpi speciali americani dispersi durante una missione segretissima nella provincia di Kunar, fra le più desolate montagne vicino al confine con il Pakistan: il tipo di territorio in cui risulta essere nascosto Osama bin Laden. Erano in quattro, i soccorritori ne hanno salvato uno, due li hanno trovati morti. La sorte del quarto è stata ora rivelata da una telefonata a un’agenzia di stampa del mullah Latif Hakimi, portavoce dei talebani: «Abbiamo ucciso il soldato che cercate e lo abbiamo decapitato. Abbiamo lasciato il corpo sul fianco di una montagna, così potete venirvelo a prendere».
L’annuncio è stato accompagnato da un sinistro particolare: «Era una persona importante. Abbiamo estratto da lui informazioni molto utili. Ci ha fornito dettagli sulla strategia militare americana, le vostre basi e i piani futuri». Una frase che può significare una cosa soltanto: tortura. La decapitazione, evidentemente, è avvenuta dopo la fine degli interrogatori.
I comandi Usa non ci credono o fanno mostra di non crederci. Ricordano che Hakimi non è fonte attendibile, che già in passato ha raccontato cose «esagerate o false», e non sono chiari neppure i suoi contatti con la leadership talebana. Così le ricerche del disperso continuano. È un’operazione in corso dal 28 giugno, con molti punti oscuri. Il Pentagono ha detto chiaramente che non saranno divulgate informazioni che possano mettere in pericolo la missione.
Tutto quello che si sa è che i quattro, membri delle unità speciali mare-aria-terra, appartenenti alla Marina e noti come «le foche», erano incaricati di una missione speciale. Erano arrivati sul posto alla fine di giugno, ma dopo un paio di giorni erano venuti a contatto con il nemico. L’ultimo contatto radio era un appello urgente: cadeva la notte, si preparava una tempesta, il commando Usa era circondato «da una dozzina di militanti». Chiedevano rinforzi. Partì d’urgenza un elicottero corazzato Mh-47 Chinook. Un pilota, altre otto «foche» della Marina, e un identico numero del Reggimento operazioni speciali dell’esercito, anch’essi con un soprannome colorito, «inseguitori della notte». L’elicottero si abbassò sulle montagne cercando di avvistare i dispersi. Dalla foresta partì un missile terra-aria e lo colpì. Il Chinook si schiantò, morirono tutti. Dei quattro dispersi se ne salvò uno. Era comunque un’operazione importante. È inevitabile chiedersi che cosa cercavano tra quelle montagne quei «marinai». Anzi, chi cercavano. Il primo nome che viene alla mente è quello di Osama Bin Laden. Quattro erano pochi per catturarlo, ma avrebbero potuto stringere i fili di un’operazione più vasta. Del capo di Al Qaida si parlava, almeno fino alla strage di Londra, sempre meno. Washington cercava di minimizzare il ruolo di colui su cui non è ancora riuscita a mettere le mani. Senza catturarlo rimarrà sempre qualche sospetto che anche a Kabul, come a Bagdad, ci sia stata una «vittoria mutilata». Anche perché in Afghanistan la situazione militare si sta deteriorando. In molte zone i talebani sono tornati all’offensiva, meglio armati e con più denaro. Dispongono di tecnologie, di esplosivi ad alto potenziale, bombe a controllo remoto e missili antiaerei. Si infiltrano nel Paese volontari stranieri, qualche arabo ma soprattutto gente dell’Asia centrale ex sovietica.
C’è chi teme che l’Afghanistan stia diventando un secondo Irak, che le due guerre che gli Stati Uniti e i suoi alleati stanno combattendo «collidano». Sembra certo che dall’inizio dell’«Operazione Bagdad», forse il Pentagono e sicuramente la Cia, abbiano ridotto la scala delle loro operazioni in Afghanistan, chiudendo anche delle basi: nello Herat, a Kandahar e a Mazar-el-Sharif.

Anche gli stanziamenti finanziari sarebbero stati decurtati. Potrebbe essere una spiegazione per il «ritorno» di un nemico dato per sconfitto e disperso, ma che ha un’antica tradizione di tirare in lungo la guerriglia. Come impararono vent’anni fa i sovietici.

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