Da Kabul a Napoli corrompere il nemico è una vecchia prassi

Caro Granzotto, ricordo d’aver letto lo scorso ottobre che il ministro La Russa era pronto a querelare il Times: «Il governo smentisce il Times che accusa i servizi di intelligence italiani di non aver avvisato gli alleati di aver pagato i capi dei talebani per garantirsi la sicurezza. Soltanto spazzatura, è pronta una denuncia». Ieri su Le Figaro on line si poteva leggere: «Afghanistan: l’esercito inglese e la strategia del sacco d’oro. Un nuovo manuale di istruzione raccomanda alle reclute di pagare gli afghani tentati dall’unirsi alle forze talebane. Il ministro della Difesa britannico preferisce parlare dell’importanza di finanziare dei progetti». Bisogna ammettere che gli inglesi non sono fantasiosi e superficiali come noi italiani. Loro sono... pragmatici: hanno perfino fatto un manuale politically correct! Ma non sembra che il Times ne sia a conoscenza.
Bruxelles

Vuole dire l’«autorevole» Times, caro Rossetto. Che fu molto ipocrita quando prese cappello e denunciò il supposto andazzo italiano di allungare stecche in zona di guerra. Prassi antica come il mondo: «Aureo pugilli murum frangere ferrum», come dicevano i nostri antichi. Con una manciata d’oro si sfonda un muro di ferro. Oltre tutto - e questo dovrebbe piacere assai ai pacifisti - senza che ci si debba fare male. Corrompere il nemico, insomma, è una di quelle risorse del mestiere della guerra che l’utopia etica, fessa quant’altro mai, oggi vorrebbe bandire. Meglio dunque spararsi? Più virile? Più eroico? E pensare che senza il pugillus chissà dove sarebbe andata a parare, l’Italia una e indivisibile. Lo so, stiamo apprestandoci a celebrare il centocinquantenario dell’Unità e pertanto certi aspetti del Risorgimento converrebbe non rispolverarli, ma la storia di Francesco Landi è troppo bella. O brutta, dipende. Subito dopo lo sbarco a Marsala, questa è storia nota, è storia patria, Garibaldi si trovò di fronte l’8° Cacciatori del maggiore Sforza. Disponendo di forze preponderanti e bene armate, costui avrebbe potuto tranquillamente ricacciare in mare le indisciplinate e male in arnese Camicie rosse (a Nino Bixio che suggeriva di ripiegare l’Eroe dei due mondi non rispose: «Qui si fa l’Italia o si muore», bensì: «Ritirarsi? E dove?»). Ma ecco che inopinatamente il capo delle forze borboniche in Sicilia, generale brigadiere Francesco Landi, ordinò di non attaccare. Come non bastasse, impose a Sforza di arretrare diciamo di qualche centinaio di chilometri. E Garibaldi ebbe la strada e la vittoria spianata (al passaggio del Landi a cavallo, un caporale dell’8° gli fece: «Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n ’aimma ’i accussì?». E Landi: «Va via, ubriaco!»).
Dieci mesi più tardi, il 28 marzo 1861, in quel di Napoli, Landi moriva d’infarto nei saloni del Banco locale: nella mano, serrava una polizza di 14mila ducati. Gliel’avevano rilasciata gli emissari di Garibaldi quale prezzo, così si disse (ma il comportamento a Calatafimi sembrerebbe confermarlo in pieno) del tradimento. Andò che a cose fatte, a incontro di Teano consumato e codificato dal Plebiscito, il buon Landi si presentò all’incasso esibendo allo sportello la sua «fede di credito». L’impiegato la guardò, la rigirò sottosopra, chiamò i colleghi a consulto e infine emise il verdetto: contraffatta. Bianco in volto, Landi balbettò che non era possibile, che gli fu corrisposta da persona degnissima, un’altissima personalità. «Sì, però, vede, signore... vede questi tre zeri?», gli fece l’impiegato mostrandogli il documento, «questi tre zeri sono stati aggiunti dopo e se guarda bene addirittura con inchiostro diverso. La polizza, originariamente, era di 14 ducati».

Con mano tremante Landi si riprese l’inutile pezzo di carta incamminandosi verso l’uscita, ma non reggendo al dolore e allo scuorno per esser stato bidonato da «Gariboldo», a metà strada s’accasciò, rendendo l’anima a Dio.

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