Roberta Pasero
da Key West (Usa)
Dieci, venti, cento Hemingway. Qualcuno è già arrivato. Impeccabile, sahariana bianca, maglione ruvido da pescatore, barba e sigaro che avvolge nel fumo lo sguardo pensoso. L'appuntamento per tutti è allo Sloopy Joe's Bar, il quartier generale del leggendario scrittore, come sempre quando c'è da calarsi nell'atmosfera di Key West prima della grande sfida, il «Look like challenge», che dal 18 al 23 luglio vedrà l'isola popolarsi di centinaia di sosia di Ernest Hemingway e l'elezione del più somigliante «Papa», almeno nel fisico, nello spirito chissà. Il rito si ripete uguale da ventisei anni: prima il pellegrinaggio alla casa di roccia corallina in stile coloniale dove abitò tra il 1931 e il 1940, per rivedere i suoi souvenir di viaggio, la sedia da sigaraio dove si accomodava e batteva a macchina su una classica Royal «Per chi suona la campana», «Addio alle armi», «Le nevi del Kilimangiaro», i discendenti del suo storico gatto con gli artigli che ancora abitano la villa e la piscina di acqua di mare voluta dalla moglie francese incredibilmente snob che riuscì a mandarlo sul lastrico, tanto che il suo ultimo cent rimastogli all'epoca è ancora cementato a bordo piscina.
Ma Key West non è soltanto Hemingway, anche perché chi cerca le suggestioni degli anni Trenta è arrivato con qualche decennio di ritardo e trova appena un ricordo sfumato di questa terra dall'indolente animo caraibico che era scossa soltanto dal rumore delle pale dei ventilatori e dalle epiche imprese della gente di mare. Ciò che è rimasto è un angolo di mondo stravagante e anticonformista distantissimo dagli Stati Uniti a cui soltanto teoricamente appartiene. Sarà per via della posizione geografica, più vicina a Cuba che a Miami, in questa estrema punta meridionale del continente che s'affaccia su due mari, il Golfo del Messico e l'Oceano Atlantico, qui dove comincia l'Highway US 1, raggiungibile dopo aver percorso l'autostrada sull'acqua più lunga del mondo e dove finisce l'America. Sarà per lo spirito indomito che quasi un quarto di secolo fa li ha portati a dichiarare guerra agli Usa, ad uscire dall'Unione e a proclamarsi stato indipendente, la Conch Republic, con tanto di conchiglia sulla bandiera e uffici diplomatici sparsi qua e là per il mondo. Accadde tutto un giorno del 1982 quando la polizia di confine e le autorità doganali statunitensi istituirono un posto di blocco stradale a Key Kargo, una delle altre isole dell'arcipelago delle Key (il cui nome non deriva, come si potrebbe credere, dall'inglese «chiave», ma dallo spagnolo «Los Cayos» che significa «le piccole isole») per catturare gli spacciatori di droga e gli stranieri sprovvisti del regolare permesso di soggiorno. Da quel momento l'arrivo dei turisti cominciò a diminuire, l'economia di Key West a dissolversi e allora il sindaco Dennis Wardlow dichiarò davanti alle telecamere: «Domani a mezzogiorno noi ci staccheremo dall'Unione». E così fecero, sulle orme dei loro antenati secessionisti: si riunirono sulla piazza prospiciente il mare, Mallory Square, dichiararono ufficialmente guerra agli Stati Uniti d'America, il sindaco divenne primo ministro e cominciò un conflitto civile durato esattamente un minuto, culminato in uno strano rito (venne spezzata una pagnotta rinsecchita sulla testa di un soldato in uniforme) e finito con la resa all'ammiraglio della base navale americana dell'isola, non prima di aver chiesto invano un bilione di dollari di aiuti ai Paesi stranieri.
Stravagante, certo, ma non per niente questo è il porto di mare per tanta gente ventosa: per chi ama nuotare con i delfini e per i gay in cerca di trasgressiva indifferenza, per chi vuole perlustrare i fondali del reef in cerca di bellezze marine e vascelli dei pirati e per quelli che inseguono i ricordi girovagando dalla Little White House, la Piccola Casa Bianca dove trascorreva le vacanze il presidente Truman, alle centinaia di splendide ville di legno bianco intagliato immerse in parchi e giardini d'antiquariato, per chi, soprattutto, non si ritrova nel perbenista mondo yankee fatto di tecnologia e fast food.
Questo è anche il paese dove i galli regnano sovrani. Si aggirano in centinaia fin sui marciapiedi di Duval Street, la via dello struscio notturno e dei finti Elvis Presley in concerto (qui i nomi delle strade sono scritti sui pali della luce), cadenzano il tempo sonnecchioso dell'isola con i loro implacabili chicchirichì, galli selvatici e randagi ma ormai molto più domestici degli animali da compagnia che in caso di malanni possono rivolgersi al Chicken Store, una sorta di centro di assistenza dotato persino di divani e di tivù a disposizione dei bipedi convalescenti. E anche loro popolano Mallory Square, la sera, ogni sera dell'anno, per la Sunset Celebration, la festa del tramonto che su questo palcoscenico naturale raccoglie turisti, giocolieri, mangiafuoco, artisti di strada, tutti uniti per assistere allo spettacolare tuffo del sole nel mare, tra balli, canti e immancabili applausi finali.
Una bizzarria isolana che s'insinua persino tra le pietre tombali del Key West Cemetery: qui sugli epitaffi non si parla di dolore ma si affronta la morte con un certo distacco. Che porta a scrivere sulle lapidi frasi ironiche, «Te l'avevo detto che ero malato», oppure il laconico commento di una moglie trascurata ed ora a suo modo rassegnata: «Almeno so dove dorme stanotte mio marito».
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