Il Kosovo dà l’addio a Rugova, il Gandhi balcanico

La scomparsa alla vigilia dei negoziati di Vienna lascia un vuoto difficile da colmare. La sua eredità contesa da politici favorevoli alla linea dura coi serbi

Fausto Biloslavo

«La nostra meta è l’indipendenza», aveva ribadito Ibrahim Rugova sei mesi fa in un’intervista al Giornale. Ma il presidente degli albanesi del Kosovo non è riuscito a coronare il suo sogno. Un cancro ai polmoni ha spento la sua lunga e controversa carriera politica, dedicata a un piccolo lembo di terra contesa nel cuore dei Balcani. Neppure i medici americani che lo curavano da settembre sono riusciti a contrastare gli effetti dell’immancabile pacchetto di Gauloises che si rigirava sempre tra le mani.
Rugova, soprannominato il Gandhi dei Balcani per la sua indole moderata e non violenta, sognava di portare il Kosovo in Europa e addirittura nella Nato. Nella sua ultima apparizione pubblica, il 23 dicembre scorso, appariva provato dalla malattia, il viso gonfio e quasi calvo a causa delle terapie contro il cancro. Proprio lui che si è sempre tenuto i capelli un po’ lunghi e come vezzo non abbandonava mai una sciarpetta di seta rossa con la cravatta blu, o viceversa, perché questi sono i colori della bandiera albanese.
Rugova si è spento ieri mattina nella sua villa fortificata sulle colline di Pristina, il capoluogo del Kosovo abitato al 90 per cento da albanesi, che non vogliono più saperne di far parte della Serbia.
Dopo l’intervento della Nato del 1999 il Kosovo è diventato un protettorato delle Nazioni Unite. Mercoledì dovevano cominciare a Vienna i negoziati diretti tra albanesi e serbi per decidere lo status futuro della provincia ribelle. Gli albanesi vogliono l’indipendenza, ma Belgrado è disposta a concedere soltanto un’ampia autonomia. La scomparsa di Rugova alla vigilia di colloqui così delicati è un fattore destabilizzante, tenendo conto che il Presidente dei kosovari non ha lasciato successori. Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per il Kosovo, il finlandese Martti Ahtisaari, ha annunciato che i colloqui sono rinviati ai primi di febbraio.
Nato nel Kosovo occidentale nel 1944, Rugova era il figlio di un negoziante ucciso dai partigiani comunisti del maresciallo Tito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La sua seconda lingua, il francese, l’aveva imparata alla Sorbona, a Parigi, prima di diventare professore di letteratura albanese. Intellettuale prestato alla politica, fu nominato nel 1988 presidente dell’Unione degli scrittori del Kosovo, che diventò ben presto terreno fertile per le aspirazioni della maggioranza albanese nei confronti dei serbi. Negli anni ’90 Rugova e il suo partito, la Lega democratica, incarnarono la resistenza non violenta al regime di Slobodan Milosevic a Belgrado. La Lega creò a Pristina e in altre città del Kosovo istituzioni parallele, dalle scuole a piccoli ospedali, per protesta verso le discriminazioni serbe. Rugova fu nominato presidente dei kosovari nel 1992 e nel 1998, in elezioni clandestine non riconosciute da Belgrado.
La sua resistenza pacifica si scontrò ben presto con le nuove leve dei politici kosovari, cresciute all’estero, che fondarono l’Uck, l’esercito di liberazione del Kosovo. Una formazione guerrigliera indipendentista che riuscì a cacciare l’esercito serbo grazie ai bombardamenti della Nato del 1999. Rugova non fu in grado di gestire la situazione, e la sua immagine toccò il fondo quando fu ripreso dalle telecamere a Belgrado mentre stringeva la mano a Milosevic in piena guerra. Più tardi disse che fu praticamente rapito dai servizi serbi. Alla fine fu l’Italia a tirarlo fuori dai guai accogliendolo a Roma.
Dopo la sconfitta dei serbi, Rugova risalì la china e il suo moderatismo sconfisse la linea dura dell’Uck. Nel 2001 conquistò la presidenza mentre il Paese era gestito dall’Onu, e nel 2004 il suo partito trionfò alle politiche. Nemici non gli sono mai mancati: subì diversi attentati, ma ne uscì sempre indenne. L’ultimo nel marzo del 2005, probabilmente ordito negli ambienti dell’ex Uck, che puntano all’indipendenza senza condizioni. Candidato al premio Nobel per la pace, lascia la moglie, tre figli e un vuoto politico difficile da colmare.
La sua morte rappresenta «una grande perdita. Ammiravo Rugova come uomo politico e leader di lunga data degli albanesi del Kosovo», ha dichiarato il presidente serbo Boris Tadic. In Albania radio e televisioni hanno interrotto i programmi per dare la notizia, e i massimi vertici dello Stato saranno presenti ai funerali. Il ministro degli Esteri Gianfranco Fini ha ribadito con un comunicato il rispetto per Rugova, che si «era adoperato per un Kosovo democratico e multietnico, proiettato verso un avvenire europeo».
Si teme che la sua morte scateni un’aspra lotta per raccoglierne l’eredità. Il politico più carismatico è Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck ed ex premier, dimessosi dopo essere stato accusato dal tribunale dell’Aia di crimini di guerra contro i serbi. Pur essendo libero in Kosovo, gli è vietato fare politica in attesa del processo, e quindi è fuori gioco. Veton Surroi, l’editore soprannominato il «Berlusconi del Kosovo», non gode di un vasto seguito. L’outsider potrebbe essere Bexhet Pacolli, il miliardario ex marito di Anna Oxa, che ha da poco fondato un partito, con agganci a Washington, per entrare alla grande sulla scena politica kosovara.


Il vero uomo forte, però, è Hasim Taqi, capo del Partito democratico, acceso rivale di Rugova, soprannominato il «serpente» ai tempi dell’Uck. Capo della linea dura indipendentista, un’avanzata di Taqi rischierebbe di far riesplodere il Kosovo.

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