L’accusatore di Del Turco scappava col tesoro

Tappeti preziosi, quadri antichi, gioielli, monili d’oro, mobili d’epoca, porcellane rare. Eccolo qua il «tesoro» di Vincenzo Angelini (il cosiddetto superteste della procura di Pescara nell’inchiesta-flop su Del Turco) sequestrato poco prima che il legittimo proprietario, indagato per bancarotta dalla procura di Chieti per una distrazione di fondi di 100 milioni di euro, gli facesse spiccare il volo. Carabinieri e guardia di finanza sono arrivati quando il «patrimonio» stava per essere caricato su alcuni furgoni. Una soffiata ha rovinato i piani dell’imprenditore che ha parlato di mazzette alla giunta Del Turco senza che mai un euro, di quelle tangenti, venisse mai trovato. Beni personali di Angelini del valore di svariati milioni di euro (si parla fra i cinque e i sei) erano stati riposti in una vecchia rimessa mai ispezionata dagli uffici del procuratore Nicola Trifuoggi, lo stesso che al momento dell’arresto del presidente della Regione Abruzzo parlò alla stampa di «prove schiaccianti» (sic!) e di «povero Angelini» vittima della banda Del Turco (doppio sic!).
Ad assistere al sequestro, impotente e col sigaro in bocca, c’era appunto lui, Vincenzo Angelini, l’ex proprietario del gruppo sanitario Villa Pini, che da vittima di «estorsioni politiche» per la procura di Pescara, è passato a rivestire il ruolo di «bancarottiere senza scrupoli» secondo la procura di Chieti. Uno che dopo il sequestro della sua clinica, il mancato pagamento di dieci mesi di stipendio ai dipendenti, le contestazioni contabili della guardia di finanza e della Banca d’Italia, adesso rischia davvero grosso avendola già scampata a seguito della richiesta d’arresto ai pm pescaresi sollecitata invano dai carabinieri.
E proprio intorno al destino di Angelini si sta giocando una battaglia durissima: quella fra i pm di Pescara e Chieti. Perché a una sostanziale «inerzia» dei primi ha fatto da contraltare un affondo chirurgico dei secondi sulla base di quelle stesse risultanze contabili riscontrata inizialmente dalle forze dell’ordine impegnate a indagare sulla sanità abruzzese. E così il 17 febbraio scorso i magistrati teatini hanno assestato il primo durissimo colpo dichiarando fallito il gruppo Angelini, mentre adesso sono riusciti a mettere le mani sul «tesoro» del suo presidente. Nonostante la coincidente corsa della procura di Pescara a chiedere il rinvio a giudizio per Del Turco e soci, l’immagine del supertestimone e dell’intera inchiesta subisce un gigantesco contraccolpo d’immagine. Eppure, a leggere le carte depositate nel procedimento scaturito dalle «confessioni» contraddittorie di Angelini, non era poi così difficile intuire che la «gola profonda» della procura di Pescara qualcosa da nascondere forse ce l’aveva, qualche bugia forse l’aveva detta, qualche conto, dai suoi conti, forse non tornava. Anche perché dalle oltre cento rogatorie disposte in tutto il mondo riscontri ai soldi nascosti all’estero da Del Turco (sei milioni di euro) e dagli altri indagati non ne erano usciti. E sempre leggendo le carte c’è da chiedersi perché i pm di Pescara hanno sentito la necessità di indagare per bancarotta Vincenzo Angelini solo successivamente all’iscrizione sul registro degli indagati di Angelini, per il medesimo reato, da parte dei pm di Chieti. E se uno le carte non le può o non le vuole leggere, allora dovrebbe andare a rileggersi ciò che su questo Giornale il 14 ottobre 2008 diceva Ottaviano Del Turco in un’intervista che, riletta oggi, dà da pensare: «Angelini ha collaborato con la procura di Pescara per evitare una galera certa. Per coprire i buchi della sua azienda e non andare in carcere s'è inventato a tavolino questo meccanismo infernale. Non c’è una prova, non c’è un riscontro che è uno». Galera che per Angelini fu chiesta non da Del Turco e nemmeno dagli altri indagati ma dai carabineri in un’informativa del 16 giugno del 2008 nella quale evidenziavano tutti gli imbrogli escogitati dal re delle cliniche private per intascare i rimborsi regionali, come la «doppia remunerazione delle prestazioni rese» da parte delle sue case di cura, come l'«apertura di dieci cartelle per lo stesso paziente» o la «certificazione di inesistenti cambi di reparto». Un sistema che secondo i carabinieri aveva creato enormi buchi sul bilancio della sanità a cui Del Turco, da governatore, aveva posto un freno. Una situazione talmente critica da aver indotto il Nas a chiedere le manette per l’imprenditore. La procura di Pescara non fu di quell’avviso.

Oggi corre a metterci una toppa, che come dice il proverbio, è peggio del buco (finanziario) lasciato dalla «gola profonda». Che anziché pagare i dipendenti s’è impegnato più che ha potuto a mettere al sicuro i gioielli di famiglia.
(ha collaborato Luca Rocca)

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