Finalmente emerge dal silenzio la Confapi e lo fa in polemica con i vertici di Confindustria. La prima è una associazione di piccole e medie imprese di scala pari alla seconda, ma è meno nota della seconda al grande pubblico. Confindustria ha presentato una lista di richieste alla politica che non rappresenta le priorità e gli interessi concreti delle imprese, in particolare quelle manifatturiere, generando sconcerto. E la presidenza della Confapi glielo ha detto chiaro e tondo. Ma aggiungendo un punto che merita tutta la nostra attenzione perché centrale: il settore manifatturiero in Italia non è per nulla morto per insuperabile concorrenza globale, sta reagendo, e ci sono politiche precise per mettere nuovamente le ali alle imprese. Tra le quali la prima è tirar giù le tasse ed abolire l'Irap. Per Confindustria, invece, la detassazione, da non crederci, non è una priorità. Vorrei commentare questo punto affinché ai politici del centrodestra non arrivi il messaggio sbagliato che quanto richiesto dal vertice confindustriale rappresenti quello che pensa la maggioranza degli imprenditori. La priorità percepita dall'imprenditoria - che in Italia è di massa - riguarda la detassazione, come dimostrato dalle posizioni di Confapi e dai tanti che si sono dissociati dalla linea di Confindustria.
Lo scenario che prevale in ambienti sindacali, confindustriali e della ricerca economica di sinistra è pessimista. Non è più possibile tenere in vita l'industria manifatturiera che fa scarpe, prodotti tessili, meccanica, ecc., perché la concorrenza sul piano dei costi fiscali e del lavoro da parte dei Paesi emergenti è ormai imbattibile. Pertanto prescrivono l'abbandono del manifatturiero «basso ed intermedio», il suo mantenimento solo nelle produzioni ad altissima tecnologia e la trasformazione dell'economia italiana in una prevalentemente fatta di aziende di servizi. Dove, implicitamente, si ritiene che lo Stato debba intervenire di più perché il mercato non ce la fa. Quindi è inutile cercare la competitività via detassazione, anzi le tasse vanno alzate per aumentare il volume di intervento pubblico. Dai primi anni '90 scrivo che, in realtà, è possibile salvare una bella fetta della nostra tradizione manifatturiera, mantenendola cuore del sistema industriale italiano perché le capacità di imprese ed imprenditori sono molto più forti di quanto il pensiero normale valuti. Che questa analisi non sia del tutto sbagliata è dimostrato dal fatto che buona parte dell'industria manifatturiera italiana, pur con enormi difficoltà, è ancora lì. Se è sopravvissuta al globobang il cui primo grande impatto decompetitivo si è sentito attorno alla metà degli anni '90, allora è probabile che abbia la forza per resistere ancora e puntare al rilancio. E qui arriviamo al punto. Confindustria propone una timida riduzione del costo del lavoro, genericamente più ricerca tecnologica e quasi non cita la detassazione come priorità. Mentre la ricetta giusta è precisa e secca: meno tasse, a partire dall'abolizione dell'Irap, per lasciare più capitale agli investimenti delle imprese ed alla loro azione di sviluppo competitivo. In particolare, non è il governo o un gruppo di élite illuminate che devono decidere come si fa industria. Lo può fare solo il singolo imprenditore. E se lo Stato vuole imprese più vitali non deve fare altro che permettere loro di ridurre i costi ed usare più soldi per gli investimenti. Per esempio, è inutile invocare più ricerca. È ovvio che un'impresa che vuole stare sul mercato debba farla. Inoltre oggi la ricerca si compra da fonti globali. Quindi il punto è avere i soldi per innovare dandone di meno in tasse. In tal senso la priorità della detassazione è tale perché ha effetti sistemici generali: togliete i pesi alle imprese e queste ci penseranno da sole a volare.
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