L’«altro» Scajola

Sono con Claudio Scajola. Credo in poche regole in compenso fisse: non si colpiscono gli avversari a terra, non si lasciano i propri feriti sul campo

di Sergio Maifredi

Sono con Claudio Scajola. Credo in poche regole in compenso fisse: non si colpiscono gli avversari a terra, non si lasciano i propri feriti sul campo. Credo, come scriveva il giudice Falcone, che si muoia generalmente perché si è soli, perché si è lasciati soli.
In momenti come questi la prudenza, la strategia politica, imporrebbe un silenzio discreto. Forse ho una concezione masochista della politica. Quando nessuno puntava un soldo sulla vittoria del centro destra alle amministrative del 2007, ho deciso che era giusto metterci la faccia, metterci la faccia in un mondo, quello culturale, in cui oggi come allora, non unirsi agli sberleffi verso Berlusconi è già un atteggiamento sospetto. E ho deciso di candidarmi per la fiducia che ho in Claudio Scajola. Lo conosco dal 2003, da distante ovviamente, e ho sempre apprezzato la sua attenzione e il suo schietto entusiasmo per le mie più incoscienti idee artistiche. Dalla volta in cui inventai insieme al Teatro della Tosse uno spettacolo con oltre cento attori a bordo di una nave traghetto che da Imperia raggiunse in sette tappe Palermo, a quando feci attraversare piazza Dante a Oneglia da un funambolo in equilibrio a trenta metri di altezza. Pensai che candidarmi ave­va la stessa forza simbolica di un tatuaggio, un rito di passaggio a cui era vile e opportunista sottrar­si. Dedicai, in cuor mio, a Clau­dio Scajola quella fatica e quel che ne conseguì. Ricordo due incontri. Il primo, formale, nel suo stu­dio di Imperia: sono sorpreso di sentirmi assolutamente a mio agio, i suoi occhi, mentre gli rac­conto i miei progetti per il Ponen­te Ligure, sono sorridenti, curio­si, infondono energia. La sua vo­ce ferma, decisa; le sue parole, da ligure, essenziali come montalia­ni ossi di seppia. Il secondo, casuale, in una asso­lata Oneglia d'agosto: è alla gui­da della sua macchina ed io ar­ranco verso la stazione, schianta­to dal caldo. Mi chiede che ci fac­cio io lì. Fermi a parlare non ci si può stare, per via del sole a picco. Mi dice di salire e mi accompa­gna in stazione. Tutto qui, semplicemente.

Credo che gli uomini si ricono­scano nella dignità con cui san­no affrontare il dolore, la caduta. E da judoista so che non importa quante volte cadi, l'importante è quanto in fretta ti rialzi. Sono con Claudio Scajola.

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