Finiti i tempi eroici della Grande guerra, lItalia tornava alla grigia prosa delletà giolittiana, necessaria ad attuare una ricostruzione morale e materiale della nazione. Per quel compito veniva scelto Francesco Saverio Nitti: un intellettuale di larga fama, professore di Scienza delle finanze alluniversità di Napoli, ma anche un politico di lungo corso, già ministro con Giolitti e Vittorio Emanuele Orlando. Chiamato alla guida del paese nel giugno del 1919, Nitti, con la sua militanza nel partito radicale spostava il baricentro politico a sinistra, riaprendo la politica di collaborazione con le forze socialiste già sperimentata da Giolitti. La sua posizione critica verso lentrata dell'Italia nel conflitto e poi il suo netto rifiuto di ogni espansione territoriale, dopo la vittoria, lo candidavano a essere il protagonista di una politica di intesa cordiale con i popoli europei, usciti tutti stremati dalla prova delle armi.
Accanto al problema della nostra politica estera che la pace di Versailles aveva lasciato largamente irrisolto, Nitti doveva affrontare due questioni prioritarie del dopoguerra. Da un lato, il passaggio da uneconomia di guerra a uneconomia di pace, che comportava una ristrutturazione globale e un brusco ridimensionamento del nostro sistema produttivo. Dallaltro, quello del reinserimento nella vita civile dei militari congedati. Problemi che venivano a essere aggravati dallespansione del nostro debito estero, accumulatosi durante il conflitto, dallimpoverimento dellagricoltura, dalla crisi di sovrapproduzione dellindustria pesante, la quale doveva affrontare il difficile ritorno alla normale economia di mercato, che comportava una drastica riduzione di manodopera e dei salari.
Questa drammatica congiuntura non poteva che provocare un diffuso sentimento di malcontento sociale che si manifestò in scioperi, contestazioni di piazza, occupazione di terre e di fabbriche, tumulti annonari, scoppi insurrezionali, frequenti aggressioni contro ufficiali e forze dellordine che si susseguirono senza interruzioni fino al 1920. Nitti si dimostrò assolutamente inadeguato a dominare questa situazione di emergenza. Non vi riuscì per le linee di indirizzo generali della sua azione, dove si palesava il suo rifuggire da responsabilità precise e il suo barcamenarsi tra i gruppi di potere. Non ne fu capace per le sue riforme economiche, che prevedevano il ruolo determinante dello Stato, in quanto «grande elemosiniere» di alcuni segmenti privilegiati del capitale e del lavoro. Non fu in grado di farlo, infine, per quello che riguardava il nodo cruciale dellordine pubblico, dove la sua leadership, ispirata al principio di una positiva funzione riformistica attribuita alla lotta di classe, si riduceva ad una tattica di non intervento tra le parti sociali in conflitto, tollerando fenomeni di disubbidienza civile e di eversione che si trasformavano in altrettante prove di impotenza da parte dello Stato.
Allinsoddisfazione per la conclusione di una guerra, che, nonostante lenormità dei sacrifici, aveva visto quasi diminuita la posizione diplomatica e strategica dell'Italia, si aggiungeva così la creazione di un clima di disfatta morale, sul piano interno, che appariva, a Giovanni Gentile, provocato in gran parte da chi, come Nitti, aveva ritenuto di poter governare «senza fede, senza idealità, senza programma che non fosse praticabile agevolmente, indulgendo agli istinti più bassi degli individui e del popolo, senza richiedere sacrifici, sempre ritenuti impossibili da sopportare».
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