Alberto Pasolini Zanelli
da Parigi
Alle dieci e mezzo della sera lottimismo di facciata dellEliseo crolla di schianto davanti alla spietatezza dei numeri. Jacques Chirac si presenta in televisione e ammette la sconfitta. «È una decisione democratica dei francesi. Un voto che crea difficoltà per gli interessi nazionali del nostro Paese. Ma restiamo pienamente in Europa e voglio dire a tutti i popoli dEuropa che manterremo i nostri impegni». Annuncia la sua presenza al summit europeo del 16 giugno. Poi aggiunge una frase pregna di significati politici: risponderò con novità al governo. Forse entro 24 ore la Francia avrà un nuovo esecutivo.
Compagni di strada e avversari del presidente commentano, chi con amarezza chi con entusiasmo, linequivocabile risultato del referendum. «È una sconfitta per lEuropa e per la Francia, entriamo in un periodo estremamente difficile», dice Michèle Alliot Marie, ministro della Difesa e tra i più seri pretendenti alla successione del premier Raffarin. «Da tre anni i francesi volevano cambiare scenario politico - sostiene il dirigente socialista Dominique Strauss-Kahn -, ma non è certo questa la maniera». E il portavoce della campagna socialista per il sì, Jack Lang, gli fa eco parlando di «situazione grave». Altri socialisti, come Henri Emmanuelli, la vedono diversamente: «Sono fiero dei francesi, è un voto di speranza e non di paura». Ma le ali estreme dello schieramento politico, a destra come a sinistra, sparano subito su Chirac: si dimetta, pretendono Jean-Marie Le Pen e Philippe de Villiers, mentre i comunisti esultano parlando di «svolta storica».
Eppure la giornata era cominciata allinsegna della fiducia. Il Primo ministro Raffarin si era presentato ai suoi concittadini di Chasseneuil-du-Poitou (addirittura parenti stretti perché sua moglie è vicesindaco di questo villaggio dellovest) con una serenità tanto più marcata quanto più improbabile e addirittura con formule verbali ricalcate su De Gaulle: «La decisione presa». Il Generale lusò alla vigilia di due referendum: sullindipendenza allAlgeria allinizio degli anni Sessanta e sulla «riforma federale». In chiusura di quel decennio e della sua carriera pubblica. Raffarin ha parlato al plurale: «Quali che siano le ipotesi, quali che siano gli scenari, le decisioni sono state prese. Sono pronte, sono maturate, sono state oggetto di riflessione e dintesa con il capo dello Stato». Dove non era sul momento chiaro se si trattasse, sulla falsariga dellultimo intervento di Valéry Giscard dEstaing, della decisione di andare avanti comunque con la costruzione dellEuropa o, più modestamente, di quella sul destino del Primo ministro, dato dai più per spacciato in ogni caso.
E non ha fatto cifre, naturalmente. Soprattutto non quelle che tutte le indiscrezioni più o meno pilotate attribuivano allo sfidante non suo ma di Chirac in persona, Nicolas Sarkozy: che un 55 per cento di no avrebbe reso obbligatoria la sua nomina a Primo ministro come pedana di lancio per lEliseo. Sarkozy alluscita dalla cabina di voto ha taciuto, ma ha ostentato sicurezza e ha, soprattutto, colto loccasione per una piccola dimostrazione, forse non inutile, di armonia familiare: per la prima volta dopo mesi si è fatto vedere in pubblico a Neully-sur-Seine in compagnia di Cecile, sua consorte e soprattutto suo capo di gabinetto. Voci sempre più insistenti preannunciavano una loro «rottura» privata, che avrebbe potuto ostacolare la sua ascesa pubblica.
A sparare cifre durante la giornata sono stati piuttosto i portavoce del «no», cioè gli svariati propagandisti e beneficiari di una protesta generalizzata e eterogenea. «Voteremo no all89 per cento», promettevano i comunisti per bocca del loro leader Marie-Georges Buffet. «E noi al 90 per cento», rilanciava Jean Marie Le Pen, tribuno dellestrema destra nazionalista (precisando che «gli elettori preferiscono sempre loriginale alla copia»). «Anche noi», affermavano i seguaci di Philippe de Villiers, il visconte vandeano che ha sempre avuto lantieuropeismo come unica ragione di essere in politica. Addirittura la totalità reclamavano i trotzkisti. Non facevano cifre i tradizionalisti cattolici.
Le percentuali dichiarate dai partiti favorevoli al sì erano meno circostanziate.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.