Marco Lombardo
Il successo nella vita è guadagnare un dollaro di stipendio e rifiutare il posto di presidente della Walt Disney Company. Ma Steve P. Jobs è fatto così: una poltrona non vale la libertà, a nessun prezzo.
Steve P. Jobs ovviamente non è povero, anzi: è il Ceo, il «chief executive officer», il capo assoluto insomma, della Apple Computer e della Pixar, le società simbolo dellera digitale. Jobs povero lo è stato quando da piccolo fu dato in adozione e invece di finire nella casa di un avvocato venne infilato in quella di due operai: eppure, nel garage di quella casa, inventò un computer e ci mise una mela sbeccata sopra, costruì dal nulla la sua fortuna. Apple, appunto, la mela tecnologica che fu sua e che poi riconquistò dopo esserne stato cacciato per portarla a diventare il simbolo della generazione iPod. E Pixar appunto - questa è la cronaca -, la società di animazione digitale che solo due anni dopo aver rotto il contratto di collaborazione con la Disney proprio dalla Disney è stata adesso acquistata in un affare da 7 miliardi e mezzo di dollari che sta stravolgendo Wall Street. Con tanto di tappeto rosso, perché Jobs diventerà il maggior azionista singolo della compagnia e perché i due geni creativi della Pixar - Ed Catmull e John Lassiter - diventeranno i padroni assoluti dello studio di cartoons più famoso al mondo: «Mentre consideravo la possibilità di far ritornare lanimazione Disney alla grandezza di una volta - ha detto lamministratore delegato di Casa Topolino Robert Iger - mi è stato subito chiaro che era essenziale mantenere una relazione con Pixar». Se non è una resa, poco ci manca.
Steve P. Jobs ha fatto insomma lennesima magia, lAmerica è ai suoi piedi, il New York Times lo ha definito il «Walt Disney del terzo Millennio» perché anche se lui disegna solo affari con un clic del computer, non è un caso che Toy Story, Nemo e Gli Incredibili - tre prodotti della casa di computer grafica che acquistò ventanni fa da George Lucas - oggi siano pezzi della storia dei cartoni animati, con tanto di incassi a sei zeri. Tutto frutto di una piccola follia, di una visione nata in quel modesto garage, dellIdea che un giorno non lontano il mondo comune e quello degli affari avrebbero avuto a che fare con un elettrodomestico mai inventato prima. Tutto frutto del senso degli affari di Jobs che - dicono i maligni - si è appropriato dellingegno del cofondatore di Apple Steve Wozniak allora, così come della creatività di Catmull e Lassiter adesso, per trasformare il tutto in una macchina sfornadollari. Dimenticando però - i maligni - che neanche Walt Disney inventò davvero Topolino.
Steve P. Jobs ha insomma scommesso ancora portando a casa lennesima rivincita su chi non sopporta il suo modo affascinante di fare business, la sua parlantina ammaliante che incanta alla presentazione dei gioielli firmati Apple, con foto, immagini e parole che contrastano il suo look minimal - dolcevita nero e jeans -, quello delluomo che non deve apparire per essere un vero uomo. Unicona del mondo americano, tanto feroce quanto riconoscente con chi lavora per lui, maniaco della segretezza a tutti costi tanto da far partire licenziamenti immediati al minimo sospetto di tradimento aziendale, esaltato dallimmagine, quella che conquista gli occhi con i suoi computer e quella dei cartoni animati che da quella macchine escono.
È una filosofia, una scelta, una missione: Jobs non ama che si parli di lui e rilascia interviste col contagocce a meno che - allultimo momento - non decida di cambiare idea anche in quelle poche occasioni. È successo, succederà ancora. In fondo quello produce parla per lui, anche se oggi che ha 50 anni e dopo un cancro dal quale è uscito vivo per miracolo, si è lasciato andare per una volta in un discorso allUniversità di Stanford che - qualcuno dice - misteriosamente circola ancora su internet ad un anno di distanza. Ma forse non è un caso: luomo che è riuscito a togliere dagli scaffali dAmerica una sua biografia non autorizzata, ha voluto per una volta raccontare la sua storia, quella dal garage al successo. Ecco allora Apple, cioè il primo computer MacIntosh, nato negli anni 70 «dalla passione per la calligrafia e per leleganza. E dal fatto che dovevo ripagare gli sforzi per farmi studiare dei miei genitori adottivi». Ecco lincontro con John Sculley, luomo che vendeva Pepsi Cola e che un giorno - diventato padrone di Apple -, lo fece fuori ammettendo poi però di aver cacciato «la persona sbagliata». Poi il ritorno alla società che aveva fondato, dove i dipendenti scappavano negli ascensori per paura di sentirsi dire «tu sei fuori». Ma prima, appunto, laffare con Lucas, lacquisto della divisione grafica del creatore di «Guerre Stellari» che diventerà Pixar, la filosofia dellimmagine. Business, insomma, ma creativo.
Steve P. Jobs ha scommesso e ha vinto, è diventato luomo del Duemila perché è il terzo millennio a celebrare le sue intuizioni. Non è stato lui a scoprire i lettori di musica digitale, eppure oggi nel mondo 41 milioni di persone possiedono un iPod, il juke-box portatile di Apple, e se isoliamo il mondo occidentale la percentuale si avvicinerà presto pericolosamente al cento per cento. Non è lui - ma il suo carissimo nemico Bill Gates - ad essere riconosciuto come il papà dei computer, eppure negli ultimi tre anni Jobs ha quadruplicato il valore in Borsa dellazione della Mela con bilanci record e, secondo gli analisti, siamo solo allinizio. Non è stato lui a inventare i cartoni animati, ma se oggi la Disney acquista la Pixar si può tranquillamente dire che il mondo è andato alla rovescia perché in realtà è la Pixar a conquistare la Disney.
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