L’«americano» Marchionne e il miracolo in casa Agnelli

Il miracolo che Sergio Marchionne ha compiuto a Torino è sintetizzato in questa sua affermazione del 2006: «In due anni siamo passati da una perdita di circa 2 milioni al giorno, a un utile gestionale medio pari a 5 milioni di euro sempre al giorno». Risultati, questi, che nel 2005 sono valsi al gruppo Fiat il primo utile netto dopo cinque anni e, per l’Auto nell’ultimo trimestre sempre del 2005, il ritorno al risultato positivo dopo 17 trimestri consecutivi in rosso.
Data per spacciata a cavallo dei due lutti che avevano colpito la famiglia Agnelli (prima la morte di Gianni e a distanza di poco tempo quella del fratello Umberto, nel frattempo diventato presidente del gruppo) e con ben cinque amministratori delegati che si sono succeduti tra il 2002 e il 2004 (Paolo Cantarella, Gabriele Galateri di Genola, Alessandro Barberis, Giuseppe Morchio e Sergio Marchionne), la rinascita di Fiat «alla velocità della luce», per usare un termine caro all’attuale ad, ha sorpreso tutti. Ultimo, nell’ordine di tempo, il presidente Usa, Barack Obama, che ha preso proprio la Fiat dell’«americano» Marchionne come modello da seguire per la ristrutturazione di Chrysler. «Non tutti - ha commentato di recente Gianluigi Gabetti, il manager a cui gli Agnelli hanno affidato la gestione del delicato passaggio generazionale ai vertici delle holding di famiglia - hanno la fortuna di avere un responsabile come Marchionne». E così l’ad di Fiat Group, forte della carta bianca concessagli dagli azionisti, trovati i giusti equilibri con il presidente Luca di Montezemolo e il vice John Elkann, impegnato a seguire lo sviluppo del business a monte del Lingotto, ha potuto mettere in pratica il suo piano di salvataggio. «Abbiamo smantellato - ha ripetuto più volte l’ad - le tradizionali strutture gerarchiche che per un secolo sono state al centro della filosofia manageriale di Fiat. Ora guardiamo alla competizione con occhi diversi. Apprezziamo, cerchiamo e sfidiamo la competizione». Proprio la sfida è la forza di Marchionne e il top manager lo ha dimostrato più volte, vincendo il braccio di ferro sulla put option al momento del divorzio da Gm (2 miliardi di dollari sfilati con abilità al colosso di Detroit, preso in contropiede dalla capacità del top manager italo-svizzero-canadese di pensare in «americano» e sfiancare inesorabilmente l’avversario nella trattativa prima di assestare la stoccata decisiva). E pensare che quanto sta accadendo oggi, compresa la presenza di Montezemolo e Marchionne ai vertici del gruppo, è dipeso completamente dalla mossa di ingegneria finanziaria, finita nel mirino di Consob e magistratura, con cui, nel settembre del 2005, la famiglia Agnelli è riuscita a mantenere il controllo del gruppo a un passo dallo spezzatino. «L’operazione condotta all’epoca da Ifil-Exor - ha precisato in questi giorni Marchionne - è stata essenziale al risanamento di Fiat. Senza quell’intervento non saremmo qui a parlare di futuro».
Ma ai nuovi orizzonti e ai risultati ottenuti dal Lingotto ha contribuito anche la capacità dell’ad di creare un team di giovani dirigenti e di rimotivare alcuni manager con i capelli brizzolati convinti ormai di essere a fine corsa.

I tanti accordi industriali siglati in questi anni, la riscoperta del patrimonio storico di Torino (la 500 oggi, la Topolino domani) per rilanciare l’immagine del gruppo, il «colpo» Chrysler, la positività nell’affrontare anche le situazioni più difficili, la convinzione di centrare gli obiettivi, andando anche controcorrente rispetto ai concorrenti, il coraggio di affermare che entro 24 mesi lo scenario dell’auto si consoliderà, facendo intendere che ci saranno delle vittime: a Marchionne, in questo momento, manca solo la soddisfazione di rivedere il titolo Fiat a doppia cifra. Ma forse è solo questione di tempo.

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