Roma - Si dice che Gianni De Gennaro non ami farsi cogliere di sorpresa. Volto impassibile che cela sempre e comunque i suoi sentimenti e un’eterna Multifilter tra le dita, spezzata a metà prima di mettersela in bocca - caratteristiche che gli sono valse il soprannome di «Dick Tracy» - il capo della polizia è abituato a pesare e a calcolare l’effetto di ogni sua parola. Questa volta, però, sull’altare della ragion politica e della faticosa sopravvivenza del governo Prodi c’è finito proprio lui. Ed è stata proprio la sorpresa, unita a una diffusa indignazione, il sentimento che più di ogni altro ha segnato la giornata della sua rimozione forzata. La «Sfinge», però, non ha battuto ciglio. E ha assistito impassibile alla sfilata di dichiarazioni e commenti che hanno invaso le agenzie di stampa.
Una raffica di parole di tenore ben diverso - almeno sul fronte del centrosinistra - rispetto a quelle fatte esplodere sette anni fa, il 26 maggio 2000, quando venne nominato capo della polizia. A quel tempo l’apprezzamento sul suo nome fu trasversale. E Luciano Violante disse addirittura: «Falcone e Borsellino oggi sarebbero contenti». L’unanimità è finita dopo il G8 di Genova. Da allora la sinistra radicale ha iniziato a chiedere a gran voce la sua testa. E i delicati equilibri che gli avevano consentito di resistere alle tempeste hanno iniziato ad essere scompaginati. Era stato proprio il governo di Giuliano Amato a nominarlo al vertice della Polizia. Ritornato a Palazzo Chigi nel 2001, Silvio Berlusconi lo riconfermò nell’incarico. Iniziarono cinque anni burrascosi in cui De Gennaro resistette ai tragici eventi di Genova, durante il G8, e alle dimissioni del ministro Claudio Scajola.
Da allora molti si sono esercitati a scommettere sulla sua capacità di sopravvivenza. Quel che è certo è che Gianni De Gennaro ha fatto valere la sua cultura di poliziotto di strada e gli insegnamenti del suo maestro Vincenzo Parisi. Ma si è anche presentato come un innovatore. Si è fatto forte del lavoro dell’affiatamento con il pacchetto di mischia dei suoi più stretti collaboratori, provenienti in gran parte dalla Squadra Mobile. Ma anche dell’ottimo lavoro fatto sulla sua immagine, attraverso l’esercizio di un potere discreto e mai arrogante, figlio di un’educazione dispensatagli dai gesuiti, ma anche da un padre consigliere della Corte dei Conti. Una apparente imperturbabilità probabilmente rafforzata dagli undici anni di lavoro condivisi con Giovanni Falcone.
Ora per quello che al Viminale tutti, dalla semplice guardia al grande poliziotto, chiamano semplicemente il «Capo» cala il sipario.
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