nostro inviato a Torino
Un giorno Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio, più di un padre per lui, gli chiese: «Gaspare, tu ne capisci di politica?». Lui, umilmente confessò: «Non ne so nulla». Per forza, era impegnato a tempo pieno nell’attività principale di Cosa nostra: uccidere. «Signor presidente, ho ammazzato una quarantina di persone e ho partecipato a sei o sette stragi». Sei o sette, se uno non si ricorda bene quante bombe ha piazzato, figurarsi se può distinguere il centrodestra dal centrosinistra, l’Ulivo dal Pdl o altre quisquilie. Graviano volava alto, evocando scenari apocalittici: «Dobbiamo attaccarci dei morti che non sono nostri». Era il ’93, la stagione delle bombe, delle stragi, del sangue. L’imbianchino ascoltava e, fra un attentato e l’altro, immagazzinava i primi rudimenti di politica. «Notai che c’era un’anomalia, anzi tante anomalie. La prima anomalia è che la sera della vigilia dell’attentato a San Giovanni in Laterano mi furono consegnate cinque lettere provenienti dai fratelli Graviano da imbucare». A chi erano destinate? «Diedi una sbirciatina. Alcune erano per i giornali, per il Corriere della Sera, per il Messaggero, le altre non le vidi». Niente sbirciatina. «Questo era anomalo, erano anomalo che l’organizzazione inviasse lettere ai giornali».
Sembra di stare dentro un fumetto. Graviano è il vate. Spatuzza esegue. Spatuzza non domanda. Spatuzza non chiede. Spatuzza, però, capisce. «Ecco, signor presidente - dice da dietro il paravento stile ambulatorio che lo nasconde - Cosa nostra è un’organizzazione terroristico-mafiosa, io ho gioito per la morte di Falcone e per la morte di Borsellino, perché erano i nostri nemici. Ma i morti del ’93 non ci appartengono, ci siamo spinti in là, questa è un’altra anomalia».
Il pentito capisce solo il linguaggio delle bombe, dei morti, delle chiese sventrate. Però, 15 anni dopo, ormai sull’orlo del pentimento, anzi di un pentimento che può aprirgli come il mar Rosso la strada verso una seconda vita, si scopre politologo. Fine politologo. «Volevo pentirmi, ma avevo paura e seguivo attentamente la politica. Ero attentissimo, perché il governo Prodi stava per cadere e io capivo che quello di cui stavo per fare il nome sarebbe diventato presidente del Consiglio nel giro di un mese». Ma sì, lo Spatuzza del 2008 sa probabilmente che la maggioranza al Senato è appesa a un filo, ai senatori a vita, alle Montalcini portate di peso al voto. Che metamorfosi.
Quattordici anni prima, al bar Doney di via Veneto, il solito Graviano, stretto in un cappotto blu, gli confida davanti a un caffè che ormai «abbiamo il Paese in mano, ci siamo affidati a persone serie». E chi sono queste persone serie? «Berlusconi e il compaesano Dell’Utri» e davanti allo sguardo forse titubante di Spatuzza che annaspa e per una volta chiede delucidazioni, il pratico Graviano gli toglie ogni dubbio: «Berlusconi, quello del Canale 5?». «Sì, quello del Canale 5». Fine della lezione. Non c’è un dettaglio, un riferimento, una curiosità, una sfumatura. Nulla di nulla.
Nel 2008, quando c’è da far esplodere la bomba atomica delle rivelazioni, Spatuzza ha cambiato passo. E sguardo. Calcola. Interpreta. Pesa gli attori nell’arena della politica italiana. Mostra di aver masticato l’argomento: «Avevo paura di parlare. Prima perché stava cadendo Prodi e poi perché al governo erano arrivati Berlusconi e il ministro Alfano che di Dell’Utri è un po’ il vice».
Chiaro? Uno che non sapeva collocare Berlusconi se non «sul Canale 5», riesce poi a seguire il gioco delle correnti dentro il nascente Pdl. Potenza del pentimento.
E allora Gaspare Spatuzza, l’imbianchino di Brancaccio, comincia a centellinare le sue rivelazioni. Gioca al dico e non dico su Berlusconi e Dell’Utri, infine, ricevute le garanzie di protezione, cala l’asso e torna alla lezione ricevuta al bar Doney: «Quel giorno Graviano era felice, era contento, era allegro. Abbiamo ottenuto quel che volevamo, non ci siamo affidati a quei quattro crasti di socialisti, ma a Berlusconi, quello del Canale 5 e al compaesano Dell’Utri». Veramente, a Spatuzza di Berlusconi e Dell’Utri interessa poco o nulla. «Gli dissi che avevo individuato Totuccio Contorno e volevo ucciderlo». Altro che Berlusconi e Dell’Utri.
Graviano però ha altro per la mente. Lui è il capo della Spectre e vuole un’altra strage, per chiudere in bellezza la mattanza di quei mesi: «L’attentato all’Olimpico serve per dare il colpo di grazia e ormai abbiamo il Paese nelle mani». La strage strategica, anche se non si capisce a che cosa, deve prevalere sulla vendetta familiare. Quasi tribale. Così, l’uomo d’onore si attrezza: «Abbiamo rinforzato le bombe con cinquanta chili di tondini di ferro, nemmeno i talebani hanno mai fatto tanto». Ma per fortuna, il congegno esplosivo fa cilecca. E Graviano si accorge di non avere in mano l’Italia, anzi le mani gliele stringono con le manette. È il 27 gennaio ’94. La carriera del boss, e quella del fratello Filippo, finisce al 41 bis e all’ergastolo. Spatuzza invece serba come un tesoro quella confidenza al bar Doney. Poche parole. Ma pesanti. Parole che valgono come un salvacondotto. Parole che attirano un ventaglio di cinque Procure. Milano, Reggio Calabria, Firenze, Palermo, Caltanissetta. Per maneggiare quei nomi, Spatuzza si scopre politologo.
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