di Carmelo Lavorino*
Per la morte di Meredith Kercher stiamo assistendo al «tutti contro tutti» senza esclusione di colpi, laddove Amanda Knox, Rudy Guede e Raffaele Sollecito fanno a gara a respingere le accuse, a prendere le distanze dagli altri due indirizzando, velatamente e non, i sospetti verso i «concorrenti». Nel frattempo la pubblica accusa ha presentato un «giudizio salomonico» accusando tutti e tre di avere partecipato all'omicidio seppur con ruoli e moventi diversi. Allo stato dei fatti il colpevole appare essere nel terzetto o il terzetto stesso, con le varianti di «tutti e tre, due, o uno solo»; ciò, perché i tre imputati hanno fornito versioni contraddittorie e discordanti. Inoltre, risulta che il delitto sia avvenuto in un caos di alcool, droga e confusione. Sembra di assistere a un gioco delle parti, dove ognuno del gruppo nasconde o falsa una fetta della verità, depista, bara, inquina le indagini, dopo però avere alterato volutamente la scena del crimine e le indagini. Un gioco delle parti che può essere stato originato solo dai seguenti quattro motivi: 1) l'assassino conoscendo perfettamente come sono andate le cose (o ricordandone solo una parte in quanto «strafatto e sballato»), mente in modo organizzato per allontanare da sé i sospetti e le prove, così creando falsi scenari, 2) la copertura di situazioni vergognose quali il consumo e lo spaccio di droga, la promiscuità sessuale sino al sesso estremo, azioni di criminalità spicciola quali furti, voyeurismo e piccoli ricatti, 3) una situazione criminogena esplosiva causata dal gruppo orgiastico e dal contesto allucinato e violento, 4) la non genuinità dei ricordi dei tre imputati in quanto gli stessi erano strafatti e bombati da alcool, droghe e quant'altro.
A questo punto la situazione appare non districabile e quindi destinata a tradursi nellennesimo delitto irrisolto e/o la solita condanna del gruppo intero, senza che vi sia la prova schiacciante e scientificamente certa.
In verità ritengo che l'analisi criminale delle tracce, la freddezza investigativa e il «fiuto» potranno aiutare a risolvere il caso: per fare questo, però, gli inquirenti, i difensori degli interessi della vittima e i difensori dell'imputato realmente innocente, dovranno dimenticare gli interessi di parte e agire in modo freddo, obbiettivo, lucido, analitico e scientifico, con il solo scopo del raggiungimento della vera verità e non di quella per vincere il processo.
La verità è già scritta - ma invisibile e impalpabile - all'interno delle dichiarazioni di tutte le persone ascoltate durante le indagini ed all'interno delle relazioni tecniche investigative: bisogna solo saperla trovare, per poi leggerla e decriptarla. La verità è stata già scritta dal comportamento dell'assassino, il quale, prima del crimine, durante e dopo il crimine, entrando in contatto con i luoghi del crimine e la vittima, ha lasciato le proprie tracce e ha accolto su di sé le loro tracce: naturalmente le tracce bisogna saperle cercare, individuare, analizzare, documentare e interpretare. Nel giallo di Perugia non si deve pensare solo a prove evidenti quali «le impronte dell'assassino» o il «testimone oculare», oppure la classica «confessione», bensì si deve lavorare sulle impronte digitali e palmari, sulle impronte di orme di scarpe, sul disegno delle macchie di sangue, sulle tracce di cancellatura, sui vari tentativi di depistaggio, messinscena e alterazione della scena, sulle tracce biologiche: tutti questi elementi ci forniscono la linea cronologica del crimine, il profilo dell'assassino, il movente, il contesto dell'omicidio.
* Criminologo
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