L’analisi La Consulta dà i numeri 3 e 138, ma dimentica quello giusto: 51

Per affondare il Lodo Alfano, che sospendeva per un tempo limitato i processi penali nei confronti delle quattro massime cariche dello Stato, la Consulta ha fatto uscire sulla ruota del Palazzo della Consulta due numeri: il 138 e il 3. Della Costituzione, si capisce. L’uno disciplina la procedura di revisione costituzionale e l’altro codifica il principio di uguaglianza. La Consulta ha detto no al Lodo perché disciplinato da una legge ordinaria e non da una legge costituzionale. Nonostante che nella precedente sentenza 24 del 2004, che ha bocciato l’analogo Lodo Schifani, non abbia speso una sola parola al riguardo. E, già che c’era, ha sostenuto che il Lodo Alfano era costituzionalmente illegittimo anche perché concedeva uno scudo ai presidenti delle Camere e del Consiglio e non lo estendeva ai ministri e ai parlamentari. Quasi che gli impegni degli uni fossero comparabili con quelli degli altri.
Il coro è pressoché unanime da parte dei giuristi di professione. Non c’è ombra di dubbio che i predetti articoli sono stati citati in maniera alquanto forzata. Invece nessuno ha finora rilevato che la Corte ha dato sì i numeri. Peccato però che non abbia invocato quello giusto. E il numero giusto, a nostro avviso, è il 51. Per la precisione, l’articolo 51, terzo e ultimo comma, della Costituzione. Che suona così: «Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro». Questa disposizione, che compariva già all’articolo 48 del progetto di Costituzione, è stata approvata dall’Assemblea costituente nella seduta del 22 maggio 1947. Praticamente senza discussione. Con ogni evidenza, non aveva bisogno di essere illustrata ed esaminata a dovere semplicemente perché assolutamente pacifica.
Tre esperti che hanno seguito passo passo i lavori dell’Assemblea costituente non nutrono dubbi in proposito. Falzone, Palermo e Cosentino (La Costituzione italiana illustrata con i lavori preparatori) sostengono che «La Costituzione italiana ha riconosciuto come consono allo spirito di una rinnovata democrazia che gli strumenti della democrazia stessa siano messi in condizione di esercitare il mandato con la massima tranquillità e sicurezza d’animo». Né queste ultime parole possono essere interpretate in modo riduttivo e collegate unicamente alla certezza del posto di lavoro, garantito dall’aspettativa. Altrimenti non si capirebbe perché i padri fondatori della Costituzione distinsero il diritto di fruire del tempo necessario all’espletamento delle pubbliche funzioni dal diritto a conservare il posto di lavoro. Che è tutt’altra cosa.
Neppure Berlusconi ha il dono dell’ubiquità. Se costretto a seguire i processi che gli piovono di continuo addosso, manco fosse un criminale incallito, rischia di non poter assolvere al meglio le delicate funzioni di presidente del Consiglio. Tanto più onerose in periodo di vacche magre come questo. Ma i giudici costituzionali hanno inspiegabilmente sorvolato su questo numeretto. Eppure sono scelti per un terzo dal capo dello Stato, per un terzo dal Parlamento e per un terzo dalle massime magistrature ordinaria e amministrativa non a caso. Proprio allo scopo di avere una Corte popolata di giuristi non rinchiusi in torri d’avorio e indifferenti alle conseguenze delle proprie pronunce. Invece questi alti magistrati hanno fatto proprio il motto dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo: “fiat iustitia et pereat mundus”. Ma solo in apparenza, sia chiaro. Perché il mondo, nella fattispecie il mondo istituzionale, corre davvero un grosso pericolo: di perdere quella serenità necessaria per lo svolgimento di così impegnative funzioni.

Mentre, dopo questo verdetto, la giustizia dà l’impressione di voler uscire scandalizzata dalla finestra e di scomparire alla vista di noi comuni mortali. Un gran brutto affare, non c’è che dire.
paoloarmaroli@tin.it

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