L’analisi Goldstone fa mea culpa e finalmente è onesto con Israele

L’ammissione al Washington Post fatta dal giudice Goldstone, redattore del dirompente rapporto anti israeliano sull’operazione contro Gaza (operazione lanciata in risposta al lancio - nel corso di mesi - di 4.000 missili da parte di Hamas in cui perirono 1.400 palestinesi e 13 israeliani) di essersi sbagliato nelle sue conclusioni e di non aver sufficientemente denunciato le responsabilità palestinesi, è un atto di onestà da parte del giurista sudafricano che forse indica un primo segno dell’evoluzione dell’opinione pubblica internazionale nei confronti dello stato ebraico a seguito delle rivoluzioni in corso nel mondo arabo.
Se questo rapporto sulla base del quale l’Onu preparava una violenta condanna di Israele verrà «cestinato» come chiede Gerusalemme è da vedere. L’interesse del mondo arabo islamico e delle sinistre occidentali nel delegittimare Israele è troppo radicato per essere cancellato dalla coraggiosa ammissione del proprio errore di un giudice che, per di più è ebreo e dunque considerato automaticamente di parte. Ma questo gesto di onestà potrebbe avere interessanti ricadute politiche nel momento della confusa rivoluzione araba contro i regimi dittatoriali (anti israeliani e antisemiti anche se due, Egitto e Giordania, in pace formale con Israele). Una rivoluzione che per la prima volta non ha bruciato bandiere israeliane nelle piazze né dato a Israele e agli ebrei la colpa di quanto succede.
Una ricaduta potrebbe interessare la Turchia, paese che ha fatto della operazione israeliana contro Gaza e l’abbordaggio della nave turca Marmara (che voleva romperne l’embargo) le cause ufficiali del suo allontanamento dallo storico alleato israeliano. Le cause di questo rovesciamento di rapporti (che tuttavia non è ancora arrivato alla rottura) sono legate a ben altre ragioni: la crescita del fondamentalismo islamico in Turchia, l’ambizione del regime turco di ripristinare l’influenza mondiale se non il potere regionale dello scomparso impero ottomano, il desiderio di sostituirsi all’Egitto e all’America come mediatore nella questione palestinese, l’attrazione economica del mercato islamico, ecc. Potrebbe tuttavia essere l’occasione per Ankara di abbassare i toni di una critica esagerata contro Israele che comincia ad avere effetti negativi in Europa (avvicinamento militare di Israele alla Grecia, Bulgaria e Cipro, avversari storici della Turchia) e in America (ripristino della condanna per le stragi turche contro gli Armeni).
Una seconda possibile ricaduta sul piano dell’immagine potrebbe essere l’uso della «confessione» del Giudice Goldstone, da parte di Israele per controbattere le menzogne palestinesi e non palestinesi concernenti le sue responsabilità per i mali del mondo arabo islamico. La radicata menzogna che il conflitto israelo palestinese - nonostante la sua importanza e le responsabilità israeliane - sia come da 150 anni proclama il libello antisemita zarista dei Protocolli dei Saggi di Sion, il «malefico controllo ebraico sulla società internazionale».
Una terza, non meno importante ricaduta, potrebbe essere la dimostrazione che i popoli arabi non sono meno capaci - anche se storicamente in ritardo - di lottare per la loro libertà, la dignità e il progresso economico. Tre valori che Israele ha scritto con successo sulla sua bandiera. Essi potrebbero diventare la base di una intesa - più solida di quella stipulata con regimi dittatoriali - di reciproca collaborazione.

Quella collaborazione che l’Emiro Feizal, leader della rivolta araba nella prima guerra mondiale, aveva stipulato con il Dr Haim Weizman, presidente dell’organizzazione sionista, a Akaba nel 1919 auspicando il comune interesse per il risveglio nazionale ebraico e arabo. Il solo su cui sarà un giorno possibile fondare e sviluppare la pace nel Medio oriente.

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