L’analisi Questo è uno scontro fra uomini, non fra Stati

di R. A. Segre

Un vento di follia soffia sui rapporti fra Washington e Gerusalemme (lo dice Uri Dromi, che fu portavoce di Rabin e di Peres quando erano primi ministri). Lo dice il New Herald Tribune in due fondi, uno intitolato «La follia di Netanyahu». «Il primo ministro (col piano di nuove costruzioni) sta sabotando ogni possibilità di accordo su Gerusalemme... La sua campagna per consolidare il controllo su Gerusalemme Est deve essere fermata». «Israele ha perso il contatto con la realtà» afferma sul New York Times L. Friedman, influente commentatore politico americano, due volte premio Pulitzer (e che gioca a golf con Obama), definendo lo schiaffo dato al vicepresidente Biden con l’annuncio della costruzione di nuovi 1600 alloggi in zona araba come «pura follia». Il segretario di Stato Clinton parla di «insulto» alla presidenza statunitense. Il portavoce di Obama intenzionalmente non chiama più Netanyahu premier ma «Bibi Netanyahu».
A Gerusalemme e a Washington si sta perdendo la testa e il controllo dei nervi? Un poco sì, per reazione a differenti forme di orgoglio ferito. Ma dalle due parti si cerca di rabberciare i cocci perché questa tempesta (che non è certo in un bicchier d’acqua) è una crisi fra persone ma non fra Stati. Anzi, potrebbe essere una crisi non voluta ma sfruttabile per crearne all’interno della coalizione governativa israeliana un’altra allo scopo di ricomporre l’alleanza.
Una crisi del genere non dispiacerebbe a Netanyahu. Sa di aver perso il controllo della sua coalizione in cui indisciplinati spezzoni parlamentari - laici e religiosi - animati da miopi interessi locali cercano di far allineare i loro gruppi su posizioni messianiche, ultranazionaliste e in certi casi persino fascistizzanti. Sono mesi che il premier cerca di rompere l’unità del partito di opposizione Kadima, guidato dalla signora Livni, per attrarre una parte dei suoi deputati nella coalizione e renderla più disciplinata.
Allo stesso tempo gli americani sanno che la Livni non è in grado di ottenere una maggioranza alla Knesset. Vorrebbero che Netanyahu ne formasse un’altra possibilmente con lei e danno l’impressione di star gonfiando la crisi proprio per questo. Una cosa è certa: questa è una crisi a livello personale e di immagine, non a livello degli interessi reciproci che legano i due Paesi. Israele non può fare a meno dell’alleato americano. L’America non ne dispone di un altro sicuro nella regione, soprattutto nel momento di confronto (attivo o passivo) con l’Iran.
C’è poi il Congresso di Washington. Rimane decisamente schierato a favore di Israele, con una percentuale di sostegno nella opinione pubblica a favore di Israele sopra il 60 per cento. A dimostrare l’influenza ebraica sul Congresso c’è la denuncia dell’ «olocausto» degli Armeni per mano turca nella Prima guerra mondiale. La denuncia è passata alla Commissione del Congresso perché quest’anno gli israeliani non si sono dati da fare come in passato a bloccarla a causa del congelamento dei rapporti della Turchia con Gerusalemme.
Al Congresso poi c’è in bilico l’approvazione della legge Obama per la riforma della sanità. Le elezioni per il rinnovo di una parte del Senato si avvicinano. Anche i repubblicani che non amano Israele sono lieti di difenderlo contro un’amministrazione che appare sempre più incerta in politica estera.

A Washington e a Gerusalemme ci sarà chi continuerà a sentirsi offeso. Alla fine però si dovranno «ingoiare i rospi» (palestinesi inclusi) e piegarsi alla volontà americana tanto sulle costruzioni ebraiche negli insediamenti quanto sulla ripresa dei negoziati.

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