L’analisi Tessile-arredamento, quel derby infinito

Moda e arredamento: qual è la più forte fra le colonne portanti del made in Italy? Guardando i numeri, il confronto è presto fatto e ad uscirne vincitore è il settore tessile-moda, che nel 2009 ha sfiorato i 46 miliardi di euro di fatturato contro i 32,4 miliardi del legno-arredamento. E la differenza è ancora più macroscopica se si guarda al solo settore arredamento, quindi i mobili propriamente detti, che supera di poco i 20,5 miliardi di euro di fatturato 2009.
Se le dimensioni sono diverse, gli andamenti sono però identici, fatte le debite proporzioni: entrambi i settori esportano circa metà della produzione (22 miliardi di euro per il tessile-moda, 11 miliardi per il legno-arredamento) e dovrebbero di conseguenza riuscire a chiudere l’«annus horribilis» appena trascorso con un saldo della bilancia commerciale attivo, sia pure in calo rispetto agli anni passati.
Nell’arredamento, d’altra parte, l’Italia ha una posizione di leadership in Europa, che neppure la crisi ha potuto in alcun modo incrinare e lo stesso vale per quanto riguarda il tessile-abbigliamento: oltre un quarto della produzione europea - pari a circa 170 miliardi di fatturato nel 2009 -, infatti, è realizzato entro i nostri confini.
Basati sulla creatività e sull’eccellenza produttiva, i due settori hanno, non a caso, gli stessi clienti, ovvero gli appassionati in tutto il mondo di quell’inimitabile miscela di saper fare e saper vivere che va sotto il nome di «italian lifestyle»: tra i quali, paradossalmente, uno dei più importanti - e sempre più lo diventerà in futuro - è quella stessa Cina che il made in Italy considera il più pericoloso degli avversari, con la sua valanga di prodotti più o meno copiati, rovesciati a prezzi stracciati dappertutto. Identica anche la capitale: Milano, la città palcoscenico dove si celebra lo spettacolo della moda, le sfilate, e quello del mobile, ovvero i Saloni.
Tutte buone ragioni per spingere i due settori ad allearsi, o almeno così dovrebbe essere: in realtà, il mondo della moda e quello dell’arredamento mantengono le distanze da sempre, all’insegna, nel migliore dei casi, di un’educata indifferenza, quando non si arriva - come è accaduto ieri - alla polemica aperta. Le ragioni sono molte e alcune affondano le radici nel passato. Il design italiano infatti si è formato, soprattutto negli anni Cinquanta, nelle scuole di architettura, nelle Triennali e nei salotti degli imprenditori lombardi illuminati: un mondo ben diverso da quello degli stilisti che negli anni Ottanta hanno reso la moda italiana famosa nel mondo, formatisi per lo più direttamente negli atelier, con poche ma significative eccezioni, vedi l’architetto Gianfranco Ferré. Per molto tempo, i due mondi sono andati avanti come pianeti sulle loro orbite, destinati a mai incontrarsi: fino a quando, una decina d’anni fa, è esploso il boom della casa griffata.
Posacenere o cucina completa, l’importante è avere il pezzo firmato da mostrare agli ospiti: così sono iniziate le alleanze tra imprenditori dell’arredamento d’alta gamma - d’altra parte abituati da decenni a collaborare con architetti e designer di tutto il mondo, e con un patrimonio di eccellenza tecnologica senza confronti - e stilisti.

Ma non è bastato a cancellare del tutto una certa diffidenza, soprattutto da parte dei produttori di mobili «vecchio stampo»: solidi artigiani brianzoli che non riescono ad accettare che un loro armadio, tre metri per tre di buon legno, si venda a 1.700 euro, la stessa cifra sul cartellino di una borsa - e nemmeno delle più care - esposta nelle vetrine del Quadrilatero. Solo che la borsa dura una stagione, e l’armadio una vita.

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