«Una banca italiana sta per fallire»: è il primo weekend di marzo 2009, il grido di terrore rimbalzato dalle sale operative di Londra ha appena inferto unaltra ferita a Piazza Affari, da giorni incapace di trovare la ragione.
Poche ore dopo, è lunedì 9 marzo: lFtseMib cade ancora, riesce a resistere a malapena sopra quota 12.600 punti. È il punto più basso dallinizio del 2001 e sui quotidiani si rincorrono titoli allarmati: «Borse, solo Piazza Affari cade», «Piazza Affari è la grande malata dEuropa», «Piazza Affari, scatta lemergenza».
A pochi giorni dallo choc della maxi-perdita accusata dallamericana Aig e dellaumento di capitale della britannica Hsbc, la forza delle vendite è soverchiante rispetto ai cosiddetti fondamentali di bilancio su cui si sono per anni esercitati gli analisti di tutto il mondo. Londra ha dovuto nazionalizzare Lloyds e quello che più preoccupa è che la Borsa di Milano appare «scollegata» dai pur timidi tentativi di ripresa degli altri mercati internazionali, che siano europei, americani o asiatici. La tensione è palpabile: a pesare è il «rischio Paese», rilanciavano in quei frangenti gli operatori trincerandosi dietro lo spettro del previsto tonfo che avrebbe avuto il Pil nel 2009, anche se le previsioni non erano tanto lontane da quelle degli altri Paesi europei. A impensierire era poi la situazione del mondo assicurativo, i cui attivi rischiavano di finire schiacciati dalla recessione. I credit default swap (il termometro che misura il rischio di insolvenza) riferiti al nostro Paese segnavano il massimo storico, gli economisti iniziavano a chiedersi se la malattia delleconomia italiana fosse realmente così grave visto che la situazione sul versante dei titoli di Stato non dava segni di allarme anche rispetto al solido Bund tedesco.
Le risposte, adesso come allora, non sono mai state univoche, ma di certo, a pesare sul crollo del listino Milano, è stato anche il grande peso che il settore bancario e assicurativo ricopre in un capitalismo come quello italiano, sovente privo di capitali: per averne la prova basta sfogliare S&P-Mib, «il club» dei big del listino, dove si contano Unicredit, Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca, Monte Paschi, Unipol e una manciata di Popolari.
Davanti allondata di sfiducia del mercato verso le logiche delle finanza e del mondo del credito, l«antidoto» dei titoli industriali e farmaceutici non poteva che rivelarsi insufficiente a salvare il bilancio della Borsa. Anche perché nel nostro Paese il tessuto produttivo è spesso rappresentato da piccole e medie realtà, estranee alle logiche della finanza.
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