Cultura e Spettacoli

L’anomalo caso degli storici italiani

Come ottenere una divulgazione di alto livello? I professori scrivendo meglio e i «cronisti» imparando il metodo

Da tempo le pagine dei giornali ci parlano sempre più spesso di storia. I dibattiti su fascismo e Resistenza, sulle guerre e le dittature del Ventesimo secolo sono al centro delle pagine culturali, e talvolta anche di quelle politiche. La storia sembra avere scalzato dal suo piedistallo la letteratura, che prima regnava incontrastata negli elzeviri. Parallelamente, gli scaffali delle librerie si riempiono come non mai di studi e memoriali sui momenti più controversi del nostro passato: gli editori sanno che la saggistica storica «tira».
Non c’è dubbio che questo fatto rifletta un reale interesse del pubblico. La storia è percepita come vera fonte dell’identità nazionale e come strumento di legittimazione delle attuali istituzioni politiche e sociali. Ma se davvero ha un ruolo così importante e delicato nella vita del Paese, viene spontanea una domanda: chi scrive di storia? La risposta non è affatto scontata.
In Italia ci sono pochi autori professionisti di divulgazione storica in grado di vendere bene, e quasi tutti sono giornalisti. Il caso più eclatante è stato quello di Montanelli, ma possiamo ricordare anche Petacco, Bocca, Cervi, Spinosa, Bartoli e vari altri. Gli storici accademici scrivono invece prevalentemente libri specialistici. Altrove la situazione è diversa. Paesi come la Francia e il Regno Unito vantano una lunga tradizione divulgativa. Celebrati studiosi accademici scrivono spesso volumi diretti a un vasto pubblico: si pensi a medievisti famosi come Jacques Le Goff; oppure al successo dei libri sull’Italia di Denis Mack Smith. Certo, si potrebbe obiettare che questo fatto non dipende solo dagli autori, ma anche dall’intera organizzazione dell’industria della cultura, a cominciare dagli editori che non incoraggerebbero a sufficienza la divulgazione di qualità, promuovendo specifiche collane.
Quanto vendono i libri di storia? I dati forniti dall’Associazione italiana editori ci dicono che in Italia si stampano 53mila titoli l’anno, per un totale di 254 milioni di copie (escluse le vendite abbinate a quotidiani). La tiratura media è bassa: 4800 copie. I libri di storia nelle maggiori collane editoriali si collocano nella media, con una tiratura che oscilla fra le 3000 e le 5000 copie; i libri di storia più specializzati, quelli rivolti al mondo universitario, non superano invece le 300-1000 copie.
In questo panorama, Indro Montanelli rappresenta un caso davvero eccezionale. Al 31 dicembre dell’anno scorso le sue opere - molte scritte a quattro mani, alcune con Roberto Gervaso altre con Mario Cervi - avevano venduto 7.270.000 copie nelle librerie e 6 milioni di copie nelle edicole (dove Fabbri ha proposto a più riprese la sua Storia d’Italia) - senza parlare del successo dell’edizione abbinata al Corriere della Sera nel 2003-2004: 4.529.689 copie, oltre al milione di esemplari del primo volume gratuito.
Per valutare meglio la portata di queste cifre, possiamo confrontarle con le vendite ottenute dallo storico forse più famoso e controverso degli ultimi anni, Renzo De Felice. La sua opera principale, la monumentale biografia di Mussolini, ha venduto nelle sue varie edizioni dalla prima uscita del 1965 al 31 dicembre 2004 un totale di 435mila copie. Se anche ci limitiamo alle vendite in libreria, ed escludiamo i saggi giornalistici, risulta che la Storia d’Italia di Montanelli ha venduto 14-15 volte di più di quella di De Felice.
È facile spiegare il successo di Montanelli rispetto a De Felice, e in generale il successo dei giornalisti rispetto agli storici accademici, pensando alla diversa impostazione dei loro libri. Da una parte abbiamo libri pensati per il pubblico, scritti con stile piacevole, e che hanno la capacità di solleticare la curiosità e l’interesse anche dei profani; dall’altra, troviamo libri pensati per i soli specialisti, scritti con un linguaggio difficile, e che hanno l’ambizione di contribuire alla conoscenza e «durare», anziché piacere.
Ma la differenza non è solo di stile. Oltre all’uso di un linguaggio specialistico e di riferimenti chiari solo agli adepti, gli storici hanno sviluppato precise metodologie per verificare la qualità del lavoro, a cominciare dal riferimento puntuale ai documenti. Ogni libro di storia, oltre alla conoscenza dei precedenti contributi, basa le sue ipotesi su di una specifica documentazione (possibilmente di prima mano). Un vincolo, questo delle fonti, non tassativo per i giornalisti. Per fortuna non mancano le eccezioni, sia fra gli storici sia fra i giornalisti. Ma sono poche.
Che cosa si può fare allora per promuovere anche in Italia una divulgazione storica di alto livello? Con un po’ di retorica, si può dire che basterebbe che gli storici adottassero un linguaggio più semplice o i giornalisti un metodo più accurato. Ma la tendenza alla specializzazione che investe tutti i campi professionali lascia poco spazio a tali buoni propositi.
Un esempio interessante ci viene invece dai Paesi anglosassoni. Qui esiste da anni la figura dello «storico pubblico» (public historian), uno storico professionista formato con lo scopo di comunicare la storia al largo pubblico. Molte università hanno corsi specifici, dove si studia insieme storia e tecniche di comunicazione. Il laureato che esce trova impiego come scrittore e consulente nel mondo dei mass media (giornali, radio, televisioni, Internet) e nell’editoria; ma è anche richiesto dagli archivi, dai musei (in Italia monopolio degli storici dell’arte) e da molte istituzioni culturali. Spesso sono le amministrazioni locali a cercarlo, per valorizzare il loro patrimonio storico di fronte alla popolazione e ai turisti, con l’incarico di organizzare mostre, conferenze, progetti multimediali e iniziative educative per le scuole. Tutte le principali agenzie pubbliche (governo, ministeri, esercito, persino Cia e Fbi) dispongono stabilmente di un ufficio storico. L’ultima moda è quella di assumere uno storico pubblico nei parchi: aiuta a preservare la «memoria dei luoghi».
Il compito dello storico pubblico è in pratica quello di lavorare da esperto in ambienti lontani dal mondo accademico e di diffondere la storia utilizzando tutti i moderni strumenti tecnologici. In questo modo egli assume una funzione molto importante nella vita pubblica e mostra concretamente come la storia possa adempiere ad un ruolo civico.

Una lezione che troppo spesso tutti, storici e giornalisti, dimenticano.

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