L’antica Cina era un bordello Ma imperiale

«Jin Ping Mei» ovvero splendori e miserie di cortigiane e casalinghe nella Cina del XII secolo

L’antica Cina era un bordello Ma imperiale

C ontrariamente a quanto si pensa e a volte si dice, i cinesi ce l’hanno grosso. Calma, calma, il tema di queste pagine è evidente, ma per ora stiamo parlando del canone letterario. Fra l’altro limitandoci al romanzo, poiché il versante poetico sarebbe più lungo della Grande Muraglia. Mettendo insieme Il romanzo dei tre regni (1361), I briganti (1368), Il viaggio in Occidente (1590) e Il sogno della camera rossa (1792), e misurandoli, bene impilati, a spanne ci si avvicina alle diecimila pagine. Sono, appunto, i «quattro grandi romanzi classici» di laggiù. Ma se a loro sommiamo il quinto «fratello», il più discolo, il più arrapato, il più scandaloso, tanto scandaloso da essere per secoli bandito dal perbenismo ahinoi diffuso tanto in Occidente quanto in Oriente, allora varchiamo la soglia critica che ci fa parlare di un’autentica epica. Un’epica che è tale, in Grecia, in Persia, a Roma, insomma ovunque, anche in forza del motore più potente noto all’uomo e alla donna: l’erotismo. Il quinto fratello, o il «figliol prodigo» che dir si voglia del genio letterario cinese si chiama Jin Ping Mei, e in italiano suona Fiore di Prugno nell’Ampolla d’Oro. E già capite dove si va a parare, perché se «fiore di prugno» è un’immagine, diciamolo pure, un tantino cervellotica per indicare il maschio, «ampolla d’oro» rende benissimo, oltre ogni ragionevole dubbio o ipocrisia, la parte per il tutto della femmina. Ecco, «femmina» è la parola chiave. Infatti questo libro, edito ora da Luni per la prima volta integralmente nella nostra lingua da Serafino Balduzzi basandosi sulla versione francese di André Lévy (due volumi, pagg. XXXIV-615 e pagg. 1400 al prezzo totale di 60 euro), è fin dal titolo espressamente femminile. Jin sta per Oro, cioè Loto d’Oro, incantevole figura di fedifraga-ninfomane-intrallazzatrice e persino omicida, una sorta di dark lady sul tipo della Sharon Stone di Basic Instinct. E Ping sta per Ampolla, deuteragonista della precedente, quasi altrettanto seducente ma destinata al ruolo di vittima. Infine Mei sta per Fior di Prugno, terza classificata nell’ideale concorso di Miss Cina, la quale di Loto d’Oro è cameriera. Del tutto superfluo aizzare il lettore (o la lettrice) con l’adusato motto cherchez la femme, visto che di femmes qui ce ne sono a frotte, di tutte le età (non ci si accusi di gerontofilia strisciante se diciamo che la più simpatica è in fondo la mezzana attempata che innesca il meccanismo narrativo combinando l’incontro fra Loto d’Oro e il protagonista maschile Ximen), di tutte le forme e di tutti i gusti, erotici ma non solo. Meno superfluo è fargli notare che l’anonimo autore (uomo o donna non è dato sapere), il quale scrive nel XVI secolo, però riferendosi al torno di tempo tra la fine di ottobre del 1112 e la metà del 1127, ha insufflato alla sua fluviale opera molto più yin che yang, molta più Terra che Cielo, molte più, volgarmente parlando, bernarde che piselli. Tuttavia femmina non significa (almeno non ancora) femminista, né maschio significa (almeno non ancora) maschilista. Nella Cina del XII secolo, e non soltanto lì, come sappiamo, i ruoli erano pressoché cristallizzati in una dimensione ultra-temporale. Per l’uomo la daniang è la moglie principale, e tutto il resto, mogli diciamo così «laterali», amanti ufficiali, ufficiose, occasionali, sgualdrine e compagnia copulando, è messo in conto a far data dalla prima bambinesca erezione. In tale contesto Ximen sta come un topo nel formaggio. «Era un insigne fannullone che possedeva una farmacia in centro, davanti alla sottoprefettura. Era versato in varie scienze, apprese fin dalla prima gioventù: come sprecare tempo e denaro, come manovrare pugni e bastone, come giocare a carte, scacchi e domino. Da un giorno all’altro era diventato così potente in città, che nessuno osava più contrastarlo: mediante un intrec- cio di crediti al ceto dirigente, si era elevato a gran maestro della corruzione giudiziaria locale». Questo breve ritratto che peraltro somiglia molto a una fedina penale ci fa capire fin dal secondo capitolo che Jin Ping Mei non è banalmente un contenitore di scene di sesso (qualcuno s’è preso la briga di contarle una per una, arrivando alla bella cifra di 72, cioè una ogni 27 pagine circa), non è un romanzo libertino nel senso occidentale del termine, semplicemente licenzioso e volto all’intrattenimento. È invece, come i Racconti di Canterbury, come il Decamerone, un ritratto dal vivo di una società che, all’epoca della dinastia Song settentrionale, doveva fare i conti non soltanto con la decadenza interna dei costumi, ma anche con la pressione, ai confini occidentali, di orde di «barbari» bellicosi. «Oltre al porno - scrive Balduzzi nell’introduzione - c’è di tutto un po’: dalla scena farsesca, alla storia criminale, alla pia leggenda, alla commedia faceta, a quella strappalacrime, alla satira, persino a qualche requisitoria politica, magari con accostamenti da doccia scozzese».

Soprattutto, qui il sesso non è una dilettevole e comoda via di fuga dalle urgenze quotidiane, bensì un loro ovvio pendant quotidiano, con tanto di travestitismo, omosessualità, orge e via coricando. Ebbene sì, la vecchia Cina ci è vicina.

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