L’antieroico Lucini che spernacchiava l’Italietta di Giolitti

Ci sono poeti che non fanno nulla per piacere. Anzi, si compiacciono del contrario divertendosi a essere arcigni e ispidi, antipatici e urticanti. E la critica, dei coevi come dei posteri, ha gioco facile a condannarli all’insuccesso e all’emarginazione. Il milanese Gian Pietro Lucini (1867-1914), erede della scapigliatura ottocentesca e protagonista della stagione di sperimentazione e d’avanguardia del primo Novecento, è uno tra questi. A fasi alterne riproposto e poi subito eclissato, questo singolare interprete del verso libero e della polemica, del simbolismo e dello sberleffo non è stato premiato dall’elezione a classico che pure oggi non è negata a nessuno. Al massimo, depennato da antologie e manuali, gli tocca qualche meritoria riedizione. Mentre ora esce per la prima volta Antimilitarismo (Mondadori, pagg. 158, euro 7,40), la sua ultima opera rimasta in bozze per la morte che lo colse a soli 47 anni, la recente antologia curata da Marcello Carlino e Francesco Muzzioli (Monologhi, Empirìa, pagg. 154, euro 14) lo candida al ruolo che più gli compete, di feroce guastatore e velenoso polemista di un’Italia inquieta e maneggiona in cui erano all’ordine del giorno le cannonate di Bava Beccaris, gli intrighi giolittiani e le iniziative di agitatori politici.
Repubblicano e anarchico, Lucini affiancava al suo programma di rinnovamento stilistico, che lo porterà per qualche tempo a condividere le battaglie letterarie del futurismo, un’ideologia non priva di retorica giacobina scagliata contro i buoni sentimenti e il falso umanitarismo. Era un seguace di Blanqui più che di Marx, un figlio dell’anticlericalismo carducciano più che un rivoluzionario vero e proprio. Da outsider del sistema letterario e da eversivo costruttore di satire civili, le sue stilettate assomigliavano a «revolverate», come suggeriva il titolo della raccolta poetica più nota: contro lo stile classico e dannunziano - a cui oppose un plurilinguismo fatto di gerghi, tecnicismi, slogan, latinismi, francesismi e stilemi provenienti dappertutto - e contro la realtà della società industriale, che imponeva omologazioni, protocolli e comportamenti infarciti di finzioni e ipocrisie.
Nei suoi ritratti poetici, Lucini mette alla berlina le maschere del nuovo secolo, l’avventuriero coloniale, il guerrafondaio, il parvenu, ma anche il tribuno ammalato di demagogia, capace di infiammare le masse inconsapevoli promettendo il riscatto e l’emancipazione degli oppressi. Dalla piazza stipata dalla folla plaudente, il comiziante assicura: «e starò contro ai tristi facitori/ di leggi che vi affamano;/ sarà l’anima vostra che grida, rampogna e condanna; e darà tutto il sangue in contro ai privilegi,/ alle carceri orrende, alle guerre, alle stragi.../ pel Sol dell’avvenire...». È un imbroglio, perché il favorito del popolo farà alla fine solo il proprio comodo, marionetta anch’egli di una cinica commedia dell’arte, che Lucini racconta e demistifica con violenta e inusitata potenza espressiva. Dalla sua dissacrazione, nessuno è risparmiato: l’arte deve prestarsi a un impegno sociale, altrimenti arte non è, ma solo decorazione consolatoria. Invece, a costo di sfidare la pubblica imbecillità, il poeta-antieroe o meglio il clown critico delle ideologie - che è la funzione che Lucini ha assegnato a se stesso - brandisce la spada del sarcasmo per catalogare in un infinito catasto di mediocrità la galleria degli emergenti e degli uomini di successo insieme al loro affollato codazzo di lacché. Sono i campioni della «gente-per-bene pasciuta e riverita», ma anche la Cortigianetta che si dà troppe arie, il Giovine Signore di pariniana memoria o il Giovane Eroe decorato per nulla: tutti, sotto una raffica impietosa, invitati ad abbandonare al più presto la scena: «uscite galantuomini meschini/ e nevrastenici di monarchia,/ belle speranze e prodotti d’Italia,/ eroi da un soldo, poetini in fregola,/ poetesse di rossor’ catameniali,/ pie prostitute de’ confessionali/ scintillanti ufficiali inuzzoliti,/ monaci, monacelle,/ abati modernisti,/ incappucciati Anticristi del vecchio rituale...». Abbattute le «carogne sociali», abitanti di questo sterminato canzoniere costruito come certi poemi eroicomici secenteschi, logico che al suo autore tocchi in sorte l’indifferenza del pubblico deriso e del critico «leggiucchiatore», emblema di una macchina editoriale e culturale che lo avrebbe condannato all’oblio.

Poco importa, scrive Lucini congedandosi: l’importante è essersi «risciacquato la bocca» con la verità scomoda della sua poesia maledetta: «bestemia amara, sapiente e cara,/ estrema, Prossimo mio, distratto Leggiucchiatore,/ giudice improprio d’infamia e d’onore».

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