Quando il popolo virtuoso, che non aveva mai cessato di anelare alla libertà perduta, si sincerò che il fascismo era morto, cominciò a riecheggiare nelle contrade italiane la parola che la cattiva coscienza tentava di cancellare: «Fascista!», con tutto il suo carico di furore, risentimento, odio anche contro se stessi per essere costretti ad ammettere di averci creduto; e i più tenaci accusatori furono proprio gli ex fascisti/antifascisti di recentissimo conio. Il passato è sempre un’ottima fuga e distrazione. Così, per difesa o alibi, nelle quotidiane polemiche (rinverdite in questi giorni) la qualifica di «fascista», assurta a insulto sanguinoso, veniva rilanciata da un avversario all’altro. Pochi potevano riderne senza subire offesa; la foga ingiuriosa con cui si ricorreva all’epiteto, senza rigore di verità, per puro intento calunnioso, era già indizio di sospetto, malafede e di ambiguità. In breve metà del paese diede del «fascista» all’altra metà, quando poco prima l’intero paese o quasi l’aveva considerato un privilegio e un vanto. Così tra il 1943 e il 1945, negli anni cui l’abiezione fu anche più grave della dimenticanza, si assisté in Italia a un processo di trasformismo di dimensioni epocali. Cambiavano gli attori, l’Italia restava la stessa. I giornali, da succubi zerbini del regime, divennero audaci propagatori del nuovo verbo; i giornalisti che s’erano distinti nella turpe campagna razziale del fascismo, furono altrettanto zelanti nella difesa «della democrazia e della libertà». Nell’estate del 1944 Alba De Cespedes, diventata comunista, dirigeva la rivista letteraria Mercurio, alla quale, scrive Miriam Mafai «collaborano gli intellettuali che non si erano compromessi col fascismo». Non è esatto. La stessa Alba De Cespedes, iscritta al sindacato scrittori fascisti (come Alberto Moravia), aveva regolarmente collaborato alla stampa di regime e ai più sordidi fogli antisemiti, quali Difesa della Razza, Tevere e Quadrivio. Quanto ai collaboratori della rivista «non compromessi col fascismo», c’erano Alfonso Gatto (futuro comunista) e Arturo Tofanelli (futuro socialista), entrambi entusiasti esegeti del Duce e delle «opere del regime». Parecchi si nascondevano, come Antonio Baldini, esaltatore a Weimar della cultura nazista, che girava per Roma con gli occhiali neri da cieco, la barba finta e i baffi arricciati di sego. A Weimar c’erano anche Elio Vittorini, Natalino Sapegno, in divisa fascista, e Giaime Pintor, fratello di Luigi fondatore del Manifesto, che nel 1940 aveva gioito per la caduta della Francia e la sconfitta della democrazia. L’epurazione fu un episodio «transeunte». Si scoprì che i più importanti fascisti (non meno di 34.000 secondo un calcolo obiettivo) erano stati accolti nel Pci. E Concita De Gregorio che nei giorni scorsi ha titolato l’Unità: «Roma città aperta ai fascisti», dovrebbe andarsi a rileggere le cronache di quei giorni. Tra gli epurati c’era il professor Nazareno Padellaro (zio di Antonio Padellaro, ex direttore dell’Unità), noto fascistone, firmatario del manifesto antisemita del ’38, autore di un inno delle scuole al Duce, amico e collega dell’altro filosofo «mistico» Giuseppe Flores D’Arcais (dice nulla il nome?) con il quale aveva partecipato nel 1939 a un convegno di mistica fascista.
Padellaro venne infine riabilitato e in virtù di non si sa quali meriti nominato direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione. Non venne epurato lo storico Enzo Santarelli, fascista notorio, anch’egli firmatario del manifesto razzista, perché fu lesto a chiedere
di Romano Bracalini
la tessera del Pci divenendo storico prezzolato del partito. Liberata Roma, il 4 giugno 1944, la radio inglese raggelò le speranze di quanti tentavano in fretta di accreditarsi come antifascisti. Vittorio Veltroni, famoso giornalista della radio fascista (sua la radiocronaca della visita di Hitler in Italia nel 1938) fu tra i più spregiudicati. Riuscì, non si sa come, a farsi assumere a Radio Roma, controllata dagli alleati.
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