"L’Appello? Scontificio". Travaglio ne approfitta

Ad "Annozero" il giornalista critica le sentenze di secondo grado. Però tace del suo caso: pena ridotta da 8 mesi di carcere a mille euro di multa per aver diffamato Previti. Confermato anche il risarcimento da 20mila euro per l’ex deputato

"L’Appello? Scontificio". Travaglio ne approfitta

Condanna confermata, pena scontata. Rispetto agli otto mesi e 100 euro di multa rifilati in primo grado al giornalista Marco Travaglio (querelato da Cesare Previti), al processo d’appello celebrato ieri a Roma l’«ospite» fisso di Annozero si è visto ridurre la pena a soli mille euro di multa. La terza sezione penale presieduta dal giudice Maisto ha dunque parzialmente riformato la sentenza con una forte rideterminazione della pena, ridotta a multa (che è pur sempre una condanna e presuppone l’accertamento del reato di diffamazione a mezzo stampa). Per Travaglio resta la condanna, anche se l’interessato nel dare notizia alle agenzie di stampa parla di «annullamento» del verdetto di primo grado. Resta pure il risarcimento di 20mila euro dovuto a Previti. E resta la diffamazione, perché «la notizia - come scrisse nelle motivazioni il giudice di primo grado Roberta Di Gioia - così come riportata non risponde a verità».
Lo «sconto» in Corte d’appello per Travaglio arriva a poche ore dalle considerazioni, non certo benevole, dello stesso Travaglio, sugli «scontifici» delle Corti d’appello. Nel corso della trasmissione sui Rai2, subentrando a Santoro che a proposito della bomba di Reggio Calabria ipotizzava una rottura degli equilibri dovuti all’arrivo del nuovo procuratore e alla riorganizzazione degli uffici, Travaglio osservava: «Le Corti d’appello molto spesso sono degli scontifici rispetto ai primi gradi (Santoro annuisce), evidentemente questo procuratore generale carica un po’ più di prima i pg e quindi chiedono pene più alte o conferme alle pene di primo grado». Nemmeno 24 ore dopo a beneficiare dello «scontificio» d’appello è stato proprio lui.

La querelle, e la querela, riguardano l’articolo dell’Espresso del 3 ottobre 2002 incentrato sulle rivelazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio versus l’ex ministro della Difesa presente (in realtà era assente) a un incontro nello studio dell’avvocato Carlo Taormina, con Marcello Dell’Utri e lo stesso ufficiale che raccolse le confidenze del pentito Luigi Ilardo su presunti accordi tra mafia e Forza Italia. Travaglio riportò le dichiarazioni che Riccio aveva verbalizzato alla Procura di Palermo specificando che una fuga di notizie «quasi certamente di natura istituzionale» sarebbe stata all’origine dell’uccisione del mafioso Ilardo, ormai prossimo a vuotare il sacco. «Solo Riccio può ridargli la voce - scriveva Travaglio sul settimanale - cosa che fa attraverso i suoi appunti (...) senonché nel marzo 2001 viene convocato nello studio del suo avvocato, Carlo Taormina, per una riunione con Dell’Utri e il tenente Canale, entrambi imputati per concorso esterno in mafia». Travaglio aggiunge che «Riccio denuncia subito il fatto in procura. “Si è parlato di dare una mano a Dell’Utri - dice -, io avrei dovuto dire che Ilardo non mi ha mai parlato di Dell’Utri come uomo vicino a Cosa Nostra”. In cambio - continua Travaglio - gli viene promesso un aiuto per rientrare nell’Arma e per ottenere “la rimessione nel mio processo”». Dopodiché, «in quell’occasione, come in altre - chiosa sempre Travaglio riportando le parole di Riccio - presso lo studio dell’avvocato Taormina era presente anche l’onorevole Previti», che invece nega con decisione.

Chi mente, allora, tra Riccio e Previti? Nessuno dei due. Dalla lettura integrale del verbale del colonnello dei carabinieri al pm Di Matteo, il giudice Di Gioia fa notare come Riccio «richiesto più volte dal pm di precisare se in quella sede fosse presente anche Previti, ha dapprima escluso che Previti fosse presente, chiarendo di non essere in grado di ricordare se lo avesse visto in quella o in altre occasioni ma solo per un attimo, precisando che Previti non aveva comunque partecipato all’incontro o ascoltato la conversazione». Sempre secondo il giudice di primo grado, Marco Travaglio ha messo in bocca a Riccio cose che lo stesso Riccio non ha mai proferito. O meglio, il giornalista ha omesso di riportare per intero la frase di Riccio che spiegava come Previti, a quella riunione, non vi partecipò. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado si faceva presente come «l’omissione del contenuto integrale della frase riferita dal Riccio (...) ne ha stravolto il significato, in quanto ha fornito una distorta rappresentazione del fatto riferito dalla fonte, le cui dichiarazioni, lette integralmente, modificano in maniera radicale il tenore della frase (...)». Col risultato di «insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto nella circostanza da Previti». Il giudice Di Gioia, nelle sue conclusioni, è tranchant: «Il dovere in capo al giornalista di riferire la notizia in termini aderenti alla fonte da cui la stessa è stata attinta è stato, nel caso di specie, palesemente disatteso come dimostrato dalla arbitraria censura della frase virgolettata (...).

Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano peraltro sintomatiche della sussistenza in capo all’autore di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione di Previti».

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