Settantacinque anni fa, tragedia e vittoria in Atlantico per il tesoro dell'Egypt. Erano gli anni Trenta l'imprenditoria e la marineria ligure, con un exploit senza precedenti tanto da stupire il mondo, strapparono agli abissi il più grande tesoro, doro e dargento, mai portato in superficie dalle profondità oceaniche.
I nomi appartengono alla leggenda: la Sorima, la società armatrice della flotta per i recuperi, con sede nel Palazzo della Borsa di Piazza De Ferrari a Genova; il suo creatore ed amministratore delegato, commendator Giovanni Quaglia, impareggiabile ideatore ed animatore dell'impresa; le navi, i due «Artiglio» (uno, come vedremo, saltò in aria con un bilancio di 12 vittime, fra le quali tre valentissimi palombari della ineguagliata scuola viareggina); il «Rostro»; il «Raffio» ed il piroscafo passeggeri «Egypt», colato a picco in acque profonde ed abitualmente tempestose con un grande tesoro.
La cronaca ci conduce, per un doveroso ricordo, al preludio ed al verificarsi della tragedia.
Era linverno 1930. Il Raffio si era recato a Belle Ile, davanti a Saint Nazaire, lungo la costa bretone. Si procedeva alla demolizione dei rottami pericolosi per la navigazione al largo del villaggio di Quiberon.
Più a settentrione, 60 miglia al largo di Brest, lungo la rotta oceanica del Golfo di Biscaglia, teatro della guerra dei mari del 1914/1918, la stagione ormai avanzata (si era ad ottobre) non consentiva più all'Artiglio ed al Rostro di lavorare attorno al relitto dell'Egypt. La nave del favoloso tesoro era stata da poco localizzata, dopo due anni di ricerche. Bisognava dunque salpare, raggiungere il Raffio, così da utilizzare in parte il periodo forzato di riposo, lontano dal mare tempestoso di Brest, verso acque meno insidiose.
Si trattava di un lavoro commissionato dal governo francese.
Alla demolizione per primo era stato destinato il Raffio. Il tratto di mare nei pressi di Quiberon, con fondali modesti, consentiva l'intervento. Per parte sua il Rostro doveva spazzare via i rottami sul lato nord del Canale di Saint Nazaire, fra l'isola di Houat, presso Belle Ile, e la terraferma. L'Artiglio era stato destinato a demolire il rottame di un grosso piroscafo americano - il Florence, di 11.000 tonnellate - silurato da un sommergibile tedesco con tutto l'equipaggio e l'imponente carico di munizioni ed esplosivi, a sostegno del corpo di spedizione in Europa.
Le due navi entrarono in funzione i primi di ottobre. Se tutto fosse filato liscio, gli equipaggi, fra gennaio e marzo, avrebbero goduto di tre mesi di vacanza in famiglia. Dunque dell'Egypt, del tesoro, si sarebbe riparlato con la buona stagione. La sua localizzazione, il 30 agosto di quell'anno, il 1930, aveva avuto eco mondiale. Infatti gli italiani, in vittoriosa competizione internazionale, avevano di fatto aperto un'era nuova nei recuperi a grande profondità.
L'Egypt era un piroscafo passeggeri di 7.941 tonnellate. Varato nel cantiere inglese di Greenok nel 1897, apparteneva alla «Peninsular and Oriental Steam Navigation Company». Capace di 500 passeggeri, aveva 300 uomini di equipaggio. In Inghilterra durante la guerra era stato impiegato come nave ospedale. Ma quando, il 19 maggio 1922, lasciò Tilbury e discese il Tamigi per iniziare il suo ultimo viaggio, dopo lungo ed onorato servizio, destinazione India, a bordo contava 338 persone, delle quali 44 passeggeri.
Il 20 maggio, alle 19, prua a Sud, sulla rotta del Golfo di Biscaglia, superata l'isola di Quassant, nella fitta nebbia venne udita la sirena di un'altra nave. «Pochi minuti dopo - accertò l'inchiesta - la prora del piroscafo francese da carico Seine urtò perpendicolarmente a babordo l'Egypt, all'altezza delle ciminiere. Il mare era perfettamente calmo. L'Egypt - sempre in base all'inchiesta - si inclinò sul fianco squarciato ed affondò in meno di 20 minuti».
Il bilancio fu di 88 morti: 71 membri dell'equipaggio e 17 passeggeri.
Ma l'Egypt, oltre ad un carico di merci varie, trasportava un importante partita d'oro ed argento. Nella sua «buillom room», la sala del tesoro, erano stivate 119 cassette contenenti 1.089 barre d'oro, 37 cassette con 164.979 Sterline oro e 1.229 lingotti d'argento. Tutto come da polizza assicurativa e cioè 5 tonnellate e mezzo d'oro e 43 tonnellate d'argento. Valori della Banca di India, depositati in Inghilterra per la guerra.
«La partita era principalmente assicurata dagli Underwriter dei Lloyd's ed in parte da tre compagnie di Londra, per un valore di 1.058.879 sterline», ha ricordato la Sorima in una lontana monografia. Mai il mare aveva racchiuso un tesoro di tale consistenza, perlomeno di quelli fin qui accertati.
Gli assicuratori, risarcito il danno, sopportato l'ingente perdita, proprietari ormai del tesoro sommerso, ereditarono il diritto al recupero.
I primi tentativi della inglese «Gothenburg Toving and Salvage Company» datano 1923. Due settimane di lavoro. Il 6 giugno il capitano danese Hedbak informò di aver incontrato nel drenaggio un'ostruzione. Sospettò, nulla di più, trattarsi del relitto dell'Egypt, all'incirca 48° Nord e 5° e 30' Ovest. I francesi nel 1926 si posero sulle stesse tracce con l'«Union d'Entreprises Sous Marine». Per la prima volta vennero impiegati palombari tedeschi, dotati di scafandri di nuova concezione dalla «Neufeld & Kunke». Ma in superficie venne portato soltanto un cavo telegrafico transoceanico. Tedeschi e danesi fecero brevi, infruttuose ricerche.
Nella corsa internazionale al tesoro s'inserì con piglio e straordinaria inventiva la Sorima, costituita a Genova nel 1926, amministratore delegato il commendator Giovanni Quaglia di Diano Castello: personalità esuberante, affascinante, grinta da nuova frontiera. Egli, così, s'inseriva a pieno titolo nella schiera dei pionieri che, con l'olio d'oliva e la marineria, già da decenni avevano esaltato le capacità imprenditoriali liguri: imperiesi in particolare. Non a caso la Sorima annoverò fra i suoi vertici imprenditori del Ponente quali i Canepa di Diano Marina, gli Schenardi d'Imperia, con radici e uomini di Rezzo (i Bascheri), quadri marittimi e tecnici, nonché il meglio dei palombari di Viareggio.
Con Quaglia il lavoro italiano s'impose all'ammirazione del mondo. Le inglesi Lloyd's di Londra e la «Savage Association» per le ricerche si rivolsero alla Sorima. Il 30 agosto 1928 fu stipulato il contratto: la società italiana s'impegnava ad eseguire il recupero soltanto con i suoi mezzi, sotto la sua esclusiva direzione e responsabilità, a suo totale rischio e spese.
La società genovese le eccezionali credenziali se l'era costruite giorno dopo giorno, guardando al futuro. Come nell'estate 1926, nella rada di Camogli, quando palombari dotati di scafandri Neufeld & Kunke furono calati sul relitto del piroscafo inglese Washington, colato a picco nel 1917. «Da quell'esperimento - confidò Quaglia - traemmo la convinzione che era possibile lavorare a profondità di 100 metri». Oggi, senza azzardare paragoni impossibili, ricordiamo che non è lontana l'eco dello scoop televisivo per il recupero di poche cose dal relitto dell'Andrea Doria, coperto da soli 30 metri d'acqua, in un tratto d'Atlantico assai meno ostile. Proprio dal recupero sul Washington trasse l'atto della fondazione della Sorima, con il programma di operare a grandi profondità, recuperare carichi di valore affondati durante la guerra.
I lavori di Camogli avevano segnato un successo eclatante; dal fondo venne portato in superficie l'intero carico: acciaio, rame, 7 locomotive e 300 vagoni merci!
Nel gennaio 1930 i palombari della Sorima, tutti della superba scuola di Viareggio (che doveva dar vita alla gloriosa storia dei sommozzatori ed al mondo sommerso) e con mezzi di fortuna, sollevarono dalla profondità di 96 metri del Lago di Garda, prima l'idrocorsa Savoia/Marchetti S65 e, successivamente, la salma del Maresciallo Pilota Dal Molin. Se n'ebbero preziosi suggerimenti. Lo scafandro di costruzione tedesca venne dotato di una torretta tutta italiana. «Il palombaro - usava sottolineare uno dei comandanti dell'Artiglio, Gio Batta Carli - sul fondo è l'occhio e la mente che dirige, mentre gli uomini in superficie sono il braccio che esegue ciecamente».
Seguirono con successo altri recuperi: nel Mediterraneo, a Capo Palos, dalla nave Primo, rame e zinco; a Capo Mele, dalla nave Ravenna, lana e sego. Per gli inglesi era giunto il momento per sperare sul perduto tesoro! Dell'Egypt si è detto. Quando si passò alle ricerche era stata raggiunta la piena efficienza di mezzi e di lavoro, perfetto l'addestramento di uomini destinati ad entrare nell'epopea marinaresca ligure. Il Rostro, allorché l'Artiglio mosse all'attacco dell'Egypt, dette una zampata degna del suo eccezionale stato di servizio: sotto gli occhi di specialisti internazionali, in Atlantico, al largo dell'isola di Sark, fra i più tempestosi, dalla nave francese Jeanne Marie, regolarmente silurata, trasse un importante carico di rame ed alluminio.
Nel giugno 1929 l'Artiglio, ammiraglia di questa straordinaria flotta, salpò da Brest verso l'avventura. Molti non sarebbero tornati. «Si trattava - scrisse il giornalista inglese David Scott per il Time - di trovare un ago nel pagliaio». Quaglia, oculatissimo, aveva anche trovato i piani di costruzione della sfortunata nave, così da affrontare il relitto con la dovuta conoscenza. Dal giugno 1929 al 30 agosto del '30 Artiglio e Rostro, con criteri innovativi, dragarono 150 miglia quadrate di mare fra i più tempestosi, con un massimo di 10 giornate utili al mese, da giugno a settembre, non oltre. La localizzazione avvenne 48° latitudine Nord e 5° e 30' longitudine Ovest: «Più o meno - annoteranno i libri di bordo - dove nel '23 il Capitano danese Hedbak aveva avuto l'impressione di trovarsi sulla verticale dell'Egypt».
Vennero concessi pochi istanti d'esultanza: la demolizione venne subito affrontata e proseguita fino a metà settembre, quando le condizioni meteo impedirono di rimanere ormeggiati alle boe. Artiglio e Rostro volsero allora la prua verso Saint Nazaire, deve il destino doveva funestamente manifestarsi.
Da ottobre a dicembre le operazioni nel mare di Saint Nazaire procedettero alacremente. «Il 7 dicembre, come l'Artiglio si era allontanato dal Florence - raccontò Scott - per raggiungere la distanza di sicurezza per l'esplosione, fatalità, dell'ultima carica predisposta dal palombaro Alberto Bargellini, il Rostro sull'altro lato del canale s'apprestava a lasciare il suo rottame. L'ordine lo aveva impartito il Comandante Carli, appena ricevuto il messaggio dell'Artiglio. Dal Rostro - prosegue Scott - lo si vedeva muovere lentamente. Ad un tratto si verificò un fenomeno straordinario, terrificante. Il Rostro, benché distante 2 miglia, prese a tremare da prua a poppa. Un rumore, come di mille locomotive, ci lasciò impietriti».
Fu vista un'immensa colonna d'acqua levarsi al cielo, alta 270 metri, e prendere forma di fungo. L'artiglio era sparito. L'esplosione, simultanea, imprevedibile, dell'intero carico di munizioni ed esplosivi del Florence, 11.000 tonnellate, aveva aperto sul modesto fondale una voragine di quasi 300 metri di diametro. In quel terrificante imbuto, sommerso dall'acqua della colonna che si ripiegava, l'Artiglio era stato risucchiato con tutti i suoi uomini. «La piccola nave, ricuperatrice di carichi ricchi da acque profonde, per ironia della sorte fu inghiottita dal mare in un fondale di pochi metri, su un relitto senza valore»: così fece sapere la Sorima. Dell'equipaggio di 19 persone, 12 perirono, gli altri si salvarono, probabilmente proiettati oltre il raggio della spaventosa esplosione.
Al cordoglio da ogni parte del mondo si aggiunse il timore che l'impresa dell'Egypt potesse ancora una volta arenarsi. Ma il nuovo Artiglio scese in acqua la domenica di Pasqua del 1931 nel cantiere Penhoet di Saint Nazaire, a soli 6 mesi dalla sciagura. Così volle Quaglia, così approvò il nuovo equipaggio al comando di Gio Batta Carli, che in seguito avrebbe lasciato le consegne al Capitano Ernesto Bruno di Imperia.I piani di costruzione dell'Egypt furono essenziali per giungere alla sala del tesoro nel profondo della stiva. Tra unesplosione e l'altra i palombari penetrarono nelle viscere dello scafo. Il buon auspicio fu colto dopo un tiro di benna: sulla tolda si depositò una piccola cassaforte con documenti di bordo e banconote: rupie indiane, poste subito ad asciugare. Si aggiunse un batiscafo. Lo staff dei palombari assaltatori, con Raffaelli, Sodini, Mancini e Lenci, non ebbe più un attimo di tregua.
Il 22 giugno alle 11.30, dopo 4 anni di lavoro, di attesa, il palombaro Lenci impartì l'ennesimo ordine di sollevazione della benna. Questa volta, oltre a rottami e fango, sulla tolda caddero due Sterline d'oro. La successiva bennata depose due lucenti mattoni gialli: "Lingotti, lingotti! Oro, ragazzi!". L'emozione proruppe irrefrenabile. Da 130 metri di profondità - in un mare proibitivo - intelligenza, coraggio, pericoli, sciagure, il lavoro italiano aveva avuto la meglio sullo scetticismo di non pochi, prima di tutti i francesi e, di converso, con grande soddisfazione inglese. Il lavoro proseguì per anni. La grande totalità del tesoro rivide così la luce. Il Commendator Quaglia volle tutti gli uomini attorno a sé. Ne aveva diviso le ansie, le fatiche, il dolore, le speranze, la gioia della vittoria. «Ed ora - esordì - alziamo la fronte e guardiamo quella bella nostra bandiera che lontano dalla Patria, sull'Artiglio e sul Rostro, garrisce vittoriosa al vento dell'Oceano e gridiamo tutti con quanta forza abbiamo in petto Viva l'Italia! Vi invito - concluse - a chinare il capo rivolgendo il pensiero ai nostri poveri morti; essi sono ora presenti con noi, presenti sulla tolda dell'Artiglio e condividono la nostra gioia».
Quaglia in serata riunì ancora la sua gente e lesse, fra la commozione generale, il seguente telegramma: «Commendatore Quaglia, Piroscafo Artiglio: giunga a Vossignoria ed al valoroso equipaggio dell'Artiglio il vivissimo compiacimento del Duce. Stop. Il successo dell'ardua impresa preparata con tanta cura e affidata alla superba tenacia e al generoso ardimento dei marinai Italiani non poteva mancare. Stop. Nello svolgimento dell'aspro lavoro che corona la vostra opera e del quale prego Vossignoria informarmi vi segue l'augurio e il plauso di tutti i marinai d'Italia». Firmato, Costanzo Ciano.
La prima parte del tesoro venne portata nel porto inglese di Plymouth il 26 giugno del 1932. La giustizia inglese aveva respinto una richiesta di sequestro da parte di una società francese.
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