L’avventura politica dei figli bastardi del ’900

La storia non bussa davanti a un portone. La storia arriva, quasi sempre quando non te lo aspetti. È il 1961 e un giovanotto lombardo che ricorda vagamente Nicola Di Bari si presenta a Castrocaro, quello che allora era il festival degli sconosciuti. Non avrà molta fortuna. Il suo nome d’arte è Donato. Una vita dopo entrerà a Palazzo Madama come Umberto Bossi, il Senatùr. Nessuno, allora, avrebbe mai scommesso una lira sul futuro di questo eterno studente di medicina, con una passione contadina per le poesie in dialetto e un orizzonte smisurato, anche se molto confuso. Nessuno. Non la moglie, i parenti, gli amici. Forse neppure lui. Nessuno, al tramonto della guerra fredda, si aspettava davvero che quattro gatti autonomisti avrebbero dato uno scossone alla politica italiana. Adalberto Signore e Alessandro Trocino in Razza Padana (Rizzoli, 11,50 euro) raccontano questa strana avventura, scartabellando nella cronaca e nella storia, raccogliendo storie di raid notturni in autostrada, con Bossi e Maroni che scrivono sui muri dei cavalcavia «Padania libera». Ci sono le origini della Lega, un Bossi parasessantottino che manifesta, a pugno chiuso, contro Pinochet. Ci sono i miti celtici, il linguaggio, la fede, perfino il pantheon culturale di un partito figlio bastardo del Novecento.

C’è la severità di un leader che non perdona i dissidenti e la grande avventura umana di un uomo che colleziona comizi nel varesotto o nelle valli bergamasche. Tanto da dire, qualche giorno prima di mandare la macero le arterie: «Ho fatto più comizi di Berlinguer».

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