Piccolo è bello, specialmente però se c’è qualcuno grosso ad aiutare a tenere su la casa. Seguire le suggestioni e il cuore è molto facile: siamo cresciuti con negli occhi l’immagine positiva del mulino bianco e delle mucche lilla, contrapposte al degrado della metropoli nera, sporca e popolata da bande di teppisti con facce dipinte e mazze da baseball: niente di strano quindi se l’indagine semiseria del Sole-24 ore ci restituisce una classifica del benessere stravolta rispetto a quella del Pil pro capite, con la rovinosa caduta di Milano, Torino e Roma.
Spetta però al noioso economista l’ingrato compito di riportare i dati a una lettura meno istintiva. Limitiamoci a due considerazioni: la prima riguarda la qualità dell’analisi effettuata dal quotidiano della Confindustria. È evidente che stiamo parlando di un «gioco» come correttamente ammettono le stesse autrici del commento sul Sole alla classifica pubblicata ieri, quindi non vi sono pretese di scientificità. Non vi sono applicati, tanto per essere chiari, i parametri che non sono ancora noti in dettaglio e che saranno individuati dalla commissione convocata da Sarkozy per superare il Pil (a proposito, non sarebbe male se qualche volta anche in Italia si prendessero iniziative analoghe).
Gli otto elementi considerati per questo gioco sull’indice di benessere sono arbitrari e discutibili, fra i quali spicca, per potenziale debilitante dei risultati, l’affluenza al voto in occasione delle scorse elezioni europee: un valore che (anche in considerazione delle differenze fra provincia e provincia nel caso vi fossero in contemporanea anche le amministrative) rischia di essere assai erratico e preponderante rispetto, ad esempio, alla speranza di vita media, che si suppone abbastanza simile sul territorio nazionale. Difficile sostenere ad esempio che la tradizione del voto «militante» dell’Emilia, che ha fatto registrare un robusto 77%, regali più benessere o mal di fegato (visti i risultati) rispetto a un 41% della Sardegna che sa molto di spensieratezza e spiaggia.
La seconda considerazione riguarda i trasferimenti di fondi sul territorio. Nel momento in cui si mette in parallelo la ricchezza prodotta con il «benessere» genericamente inteso, sulla base di parametri quali la vita culturale o i servizi, non si può trascurare un fatto: mentre il pil nazionale è abbastanza «impermeabile» (fatto salvo il gioco dei fondi europei), un’amministrazione locale paga o riceve cifre sostanziali tramite i fondi perequativi. Una regione come il Veneto finanzia il sistema con circa 12 miliardi all’anno, cifra che in molti anni è stata sostanzialmente pari a quella invece ricevuta dalla Campania. La stressata Lombardia annualmente contribuisce al benessere dell’Italia con un residuo fiscale spesso superiore ai 30 miliardi di euro: è vero che il denaro non dà la felicità, ma con tutti quei soldi almeno qualche sorrisino lo si può ottenere.
È evidente che si tratta di discorsi da prendere con le molle perché i flussi sono complessi e riguardano anche la ricaduta della ricchezza prodotta nelle aree urbane sulle aree rurali, ma è un fatto che in Italia l’effetto distorsivo dei trasferimenti fra le entità locali è fra i più alti d’Europa. Basti pensare che la ricca Baviera contribuisce al finanziamento della Germania per una percentuale inferiore a un terzo rispetto a quanto faccia la Lombardia per l’Italia, quindi non tenerne conto in un qualsiasi tipo di classifica del benessere in rapporto al Pil rischia di raccontarci solo una parte della storia.
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