Gli allibratori hanno abbassato le quote: Al Gore presidente degli Stati Uniti ora paga dieci a uno. C’è un movimento che lo spinge a candidarsi, a riprovare quello che sette anni fa non gli riuscì. Ha raccolto quasi 150mila firme, ha comprato pagine dei più importanti quotidiani Usa, ha chiesto l’aiuto di star dello spettacolo. Per mesi, Gore è stato il fantasma agitato ogni volta che Hillary Clinton e Barack Obama hanno fatto un errore: c’era nei sondaggi anche se formalmente aveva sempre negato di volersi rituffare in una campagna presidenziale. Quando è arrivato a Milano per il suo tour promozionale da santone dell’ambientalismo, Gore ha lanciato frasi sibilline: «Faranno i conti con me». Poi ha ripetuto che no, non vuole riprovarci, che la politica l’ha stufato, che il mondo si può cambiare da un’altra prospettiva. «Ho scelto il mio candidato, presto vi dirò chi è».
Gore non ama la Clinton, non s’è fatto affascinare dal senatore dell’Illinois, Obama: ha fatto un’inversione verso sinistra e tutti quelli che hanno scelto il centro non gli piacciono più. Christopher Hitchens dice che Al non può più nascondersi: «Con il Nobel per la pace, deve candidarsi». Tempo fa anche il Washington Post, quotidiano filodemocratico, ha dedicato a Gore un editoriale, sognandolo candidato. La truppa dei sostenitori della candidatura dell’ex vicepresidente è un fronte disomogeneo: ambientalisti, pacifisti, movimentisti, ma pure quelli che invece hanno appoggiato l’intervento in Irak degli Stati Uniti. Gore sa che c’è qualcuno pronto a invocare il suo nome per bruciarlo. In questi mesi ha cercato di condizionare la campagna elettorale. Dopo il film, dopo l’Oscar, dopo il libro, dopo Live Earth ha fatto diventare l’ambiente uno dei temi della campagna elettorale. Non era mai accaduto.
In questo modo ha tenuto appesi i democratici in cerca di nomination, tutti impegnati a non commettere lo stesso errore che nel 2004 fu tra le ragioni della sconfitta di Kerry: l’effetto Nader, ecologista vero che si candidò da indipendente e rosicchiò voti fondamentali.
Hillary s’innervosisce, dicono. La principale candidata alla Casa Bianca teme che il ritorno di fiamma del suo ex amico possa togliergli spazio. Gli sconfitti nella politica americana non corrono quasi mai due volte, ma sette anni fa Gore uscì dal voto con più voti popolari di Bush e la vittoria repubblicana fu assegnata dalla Corte suprema. L’ex vicepresidente in quell’occasione ha commesso un errore che l’America non ha dimenticato: non ha combattuto. Sull’onda del sospetto, sulla scia del rischio irregolarità elettorali in Florida, chiamò l’avversario per complimentarsi e regalargli una vittoria senza ulteriori appendici giudiziarie. Oggi quando l’America parla di lui, lo fa sempre con un tocco di ironia. Perché agli americani non importano gesti di signorilità, davanti a una sfida vogliono la lotta fino alla fine.
Non è solo questo il problema. Gore può sfruttare un anno di immensa popolarità, ma se la sua campagna partisse oggi, avrebbe dieci mesi di ritardo su tutti gli avversari, democratici e repubblicani. Hillary Clinton in tutto questo tempo ha raccolto 69 milioni di dollari, Barack Obama 75. Gore comincerebbe da zero: potrebbe accedere al finanziamento pubblico che ammonta a 75 milioni, ma chi sceglie questa formula poi non può più accedere a soldi privati. Il suo portafogli sarebbe quello e basta, mentre Hillary e gli altri continuerebbero a raccattare a destra e a sinistra fino a poter raggiungere anche 500 milioni di dollari. Poi gli strateghi: tutti quelli in grado di portare un candidato in fondo hanno già un «padrone». Compreso il più quotato di tutti, Mark Penn, che una volta era il suo uomo e poi scelse Hillary.
Possono fare pressioni, i fan di Gore.
L’effetto Al sulle elezioni Usa: tutti lo vogliono contro Hillary
Il prestigioso riconoscimento potrebbe rilanciarlo nella corsa alla nomination democratica. Ma è in ritardo rispetto agli avversari. Anche il "Washington Post" spinge per la sua discesa in campo. E la signora Clinton comincia a innervosirsi
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