Gian Micalessin
da Ramallah
Il presidente è muto, ma i negoziatori parlano per lui. E non sempre gli rendono un buon servizio. I primi a tirar per la giacca Abu Mazen e a metterlo nelle pesti sono gli egiziani. L'intervento del generale Omar Suleiman, il capo dell'intelligence egiziana a cui Hosni Mubarak ha affidato il dossier palestinese, è una vera è propria entrata a gamba tesa. Il generale, parlando alla stampa subito dopo l'incontro di ieri al Cairo tra Mubarak e Mazen, lancia un durissimo diktat all'indirizzo di Hamas e lo attribuisce allo stesso presidente palestinese. «Devono mettere fine alla violenza, mettere a punto un programma che consenta l'accettazione di tutti gli impegni presi dall'Autorità Palestinese e riconoscere Israele - spiega ai giornalisti Suleiman - e se non lo faranno Abu Mazen non li interpellerà per la formazione di un governo e formerà un esecutivo con altri partiti».
Con questa uscita il capo dell'intelligence egiziana scatena la rabbia di Hamas e offusca l'immagine del presidente palestinese, che subisce il danno più grave. «Assimilando la sua posizione a quella degli Stati Uniti e d'Israele, gli egiziani lo allontanano ancor di più dall'opinione pubblica palestinese», spiega a il Giornale il professor Zakaria Al Qaq, vice presidente dell'Università palestinese di Al Quds.
Non a caso, a Ramallah, i palestinesi corrono ai ripari e smentiscono tutto. «Il riconoscimento di Israele non è un prerequisito», spiegano i funzionari dell'Anp negando le dichiarazioni di Suleiman. Un altro funzionario presente ai colloqui del Cairo avvalora, però, l'intervento del generale egiziano. «Il presidente - precisa il funzionario - chiederà al nuovo governo di confermare tutti gli impegni presi dall'Autorità Palestinese inclusi gli accordi di pace provvisori del 93 e i colloqui di pace della road map».
Nella Striscia i leader di Hamas ingoiano il rospo e cercano una posizione accomodante in vista del primo incontro con Mazen previsto - secondo quanto riferito dall'esponente della Lega Araba Mohammed Sobeih - già per domani a Gaza. «Il presidente ha più volte assicurato di voler rispettare i risultati di queste elezioni e tutti gli sviluppi successivi», fa sapere Sami Abu Zuhri, portavoce dell'organizzazione fondamentalista. Segnali più evidenti della sorda rabbia che agita la formazione fondamentalista si percepiscono da Damasco dove Moussa Abu Marzouk, numero due dell'ufficio politico di Hamas, attacca direttamente la Casa Bianca. «Nessuna di queste condizioni può esser accettata, il presidente statunitense si deve rassegnare ad accettare la realtà e i fatti dialogando con Hamas così com'è».
La dura presa di posizione della dirigenza di Damasco arriva all'indomani dell'incontro in Siria tra Suleiman e Khaled Meshaal, numero uno dell'ufficio politico di Hamas. Durante quell'incontro il generale avrebbe già anticipato il diktat in tre parti, attribuito poi al presidente palestinese. Un diktat ripreso ieri anche dal presidente statunitense. «Continueremo ad appoggiare il governo palestinese soltanto se Hamas cambierà la sua piattaforma politica, scioglierà il suo braccio armato e cambierà il suo atteggiamento verso Israele», ha detto ieri sera in un'intervista George W. Bush. La coerenza di queste posizioni insospettisce e mette in allarme Hamas
«Gli egiziani lavorano per conto degli Usa e stanno manipolando Mazen per impedirgli di concordare con noi la formazione del nuovo governo - dichiaravano ieri sera a il Giornale fonti dell'organizzazione fondamentalista - ma lui alla fine dovrà fare i conti con il popolo palestinese e con i risultati delle elezioni».
Israele intanto ribadisce la sua linea dura e conferma il blocco di oltre 55 milioni di dollari in tasse e ritenute doganali raccolti per conto dell'Autorità Palestinese. «Non vogliamo trasferire quel denaro per poi venir ripagati con attentati suicidi», ripete Mark Regev portavoce del ministero degli Esteri israeliano.
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