L’emozione di risentire le parole di Oriana dalla voce di Franca

L’emozione di risentire le parole di Oriana dalla voce di Franca

(...) davvero la pena di condividerla con coloro ai quali si vuole bene. E voi siete fra questi.
L’emozione è andata in scena sabato sera, fra un muro di folla in via Venti, una musica techno che arrivava dalle finestre e mille e uno eventi della Notte Bianca. Una vittoria, se si considera la gente uscita di casa per una sera. Una disfatta, se si pensa ad anziani e bambini che non hanno potuto dormire in molte zone del centro, sepolti da «unz unz unz» sopra ogni livello di decibel. Comunque, qualcosa che sarebbe riduttivo buttar via del tutto, con le categorie della politica o dei costi. Troppo facile, troppo scontato, fors’anche troppo demagogico.
La Notte Bianca è stata anche altro. E, magari in modo periferico, magari di striscio, magari da imbucata, ci è entrata l’ultima delle sei serate dei «Dialoghi sulla rappresentazione», il ciclo di Sergio Maifredi e di Teatri Possibili Liguria che quest’anno era dedicato alla rappresentazione dell’odio: dalla strage dei Proci secondo Ascanio Celestini agli oroscopi dei tiranni, dall’elogio dell’odio di Massimo Fini alla splendida serata di cui siamo stati protagonisti con Marcello Veneziani, uno che riesce a parlare d’odio con gli occhiali dell’amore. Su, su fino all’odio nella storia della poesia, da Cecco Angiolieri in poi, e al racconto de La rabbia e l’orgoglio interpretato da Franca Nuti, che ho avuto la fortuna di presentare sabato sera, nel salone di Rappresentanza di Tursi.
Ecco, qui, siamo nell’alto dei cieli della cultura. Qualcosa che a Genova non si vede e non si sente spesso. Qualcosa di straordinario. E sapete da cosa si capiva che era davvero straordinario? In sala, ad ascoltare la signora Nuti c’era anche suo marito, Giancarlo Dettori, compagno di vita e di palcoscenico da decenni. Che, però, l’altra sera, alla serata sulla rappresentazione dell’odio, si è commosso come un bambino. Come se vedesse Franca per la prima volta.
Quella commozione è stata la nostra e quella di tutti, credo, coloro che erano in sala. Perché, in quell’ora in cui ha letto la lettera di Oriana Fallaci a Ferruccio de Bortoli che ha segnato la nostra cultura per i dieci anni successivi, Franca non leggeva Oriana. Franca era Oriana.
Quella commozione è stata anche quella di Sergio Maifredi, che mangia pane e teatro. Ma che, evidentemente, davanti alla grandezza, alla grandezza vera, non ha saputo trattenere la sua pelle d’oca, il suo rossore. Del resto, per quelli della sua generazione che hanno studiato teatro a Milano, pensare a Franca Nuti e Giancarlo Dettori e ai loro spettacoli, a Strehler, Ronconi e a tutto il più importante teatro italiano che li hanno sempre voluti al centro della scena, è come pensare a qualcosa di sacro. Ed ascoltare Franca Nuti che si trasfigura in Oriana Fallaci, con la pura forza della voce e della passione, è come assistere a un rito. Al più sacro dei riti.
Ribadisco. Senza «fare» Oriana, Franca è stata Oriana. Con la voce, con la rabbia, con gli occhi lucidi (davvero lucidi), con i toni alti e con quelli sussurrati. Con la mimica e con il sudore. Vederla alla fine, stringerle la mano al momento degli applausi, prima del trionfo finale, è stata una vera emozione, credetemi.
Il resto l’ha fatto la Fallaci.

Anche con un verso, splendidamente citato da Franca Nuti: «A Genova. Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate». Non serve aggiungere altro.

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