L’errore di Parigi: coi posti riservati non si salva il merito

La questione è come valutare il merito. Dopo un lungo periodo di proibizionismo siamo nel pieno di una ubriacatura: non c’è persona che non ritenga importante premiare il merito, che non si esalti sostenendo che i meritevoli debbano avere la precedenza. Ma, forse perché per molti anni, almeno da dopo il ’68, parlare di merito sembrava un’offesa alla dignità umana, oggi, pur sapendo che esso costituisce la base di qualsiasi promozione sociale, c’è grande incertezza sul modo di valutarlo.
In una realtà tanto delicata come l’istruzione universitaria, che dovrebbe avere il compito di formare le élite, le classi dirigenti di un Paese, è evidente che la valutazione delle capacità di un giovane è fondamentale, sia per non fare dei torti, sia per premiare i migliori. Va aggiunto che è giusta - socialmente, politicamente - l’idea di non dimenticare o perdere per strada quei ragazzi economicamente svantaggiati che solo attraverso l’attenzione dello Stato o di fondazioni private possono procedere negli studi senza gravare sulle finanze delle loro famiglie.
Nicolas Sarkozy ha ritenuto che a questi giovani non abbienti debba essere riservata una quota fissa di posti nell’università: il 30% del totale degli iscritti. Ciò significa che, se in una valutazione complessiva di coloro che sono stati selezionati per studiare, ad esempio, nella facoltà di medicina ci sono solo un 20% di «non abbienti» meritevoli, ne dovranno essere pescati un altro 10% tra coloro che non sono stati considerati idonei all’istruzione in medicina. Se, invece, i meritevoli «non abbienti» fossero un 40%, se ne dovrebbero tagliare il 10%.
Questa decisione così stravagante, sottointende due questioni e un problema fondamentale. La prima questione rappresenta la volontà dello Stato di dare ai genitori, non in grado di mantenere i figli all’università, la garanzia che una legge provvederà ai loro studi. Giusto, anche se questa volontà è comune a tutti i Paesi occidentali che, in forme più o meno efficienti ed equilibrate, sostengono con borse di studio i giovani meritevoli non abbienti.
In Francia, Sarkozy viene però catturato dalla magia delle quote. E questa è la seconda questione: le quote come criterio oggettivo a garanzia della giustizia sociale. Una componente della società è svantaggiata? La si garantisce riservando a essa una presenza prestabilita (una quota) in un determinato contesto: politico, culturale, economico, accademico ecc. Una bella illusione.
Se l’idea della quota restasse un’illusione di giustizia, potrebbe essere anche accettata. Il fatto è che genera un’ingiustizia bella e buona: si riserva un numero di posti comunque indipendentemente dal valore di chi accede a questi posti; si fa una discriminazione sociale ritenendo che un gruppo (qualunque esso sia - maschi o femmine, ricchi o poveri, neri o bianchi) debba essere sostenuto colmando un presunto svantaggio di partenza.
Questo modo di pensare ci rimanda al problema fondamentale, cioè i criteri di valutazione del merito e a chi deve emettere un tale giudizio. In proposito, l’incertezza regna sovrana; la diffidenza nei riguardi dei giudici è enorme; raccomandazioni e nepotismo sono sospetti difficili da cancellare.
Sono convinto che se ci fosse un lungo e consolidato esercizio di valutazione del merito non esisterebbe questa ossessione delle quote come criteri di giustizia, non ci sarebbero diffidenze e sospetti che minano le valutazioni, non si andrebbe in cerca di principi in grado di controllare coloro che devono controllare il merito.
Oggi si vive di meritocrazia, come se in mancanza di essa una società affonda.

Ma dopo tanti anni, in cui chi soltanto pronunciava quella parola era considerato un essere abbietto, oggi non si è più allenati al giudizio meritocratico, e così si ricorre, per esempio come fa Sarkozy, alle quote riservate, illudendosi che il merito venga garantito, mentre invece è un’ingiustizia nei confronti dei meritevoli che viene commessa.

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