L’estate del nostro tormento in cui Memo incontrò il Generale

Luglio-settembre ’82: il trionfo azzurro e l’assassinio di Dalla Chiesa in un romanzo di Cristiano Gatti

Arriva in questi giorni nelle librerie il romanzo "Memo e il Generale" (Prima Pagina Edizioni, pagg. 248, euro 16, www.primapaginaedizioni.com), di Cristiano Gatti, inviato del "Giornale". È l’estate del 1982, l’estate della vittoria azzurra nel Mundial spagnolo. Mentre l’Italia vive la sua stagione di travolgente euforia, due storie s’intrecciano casualmente nella vita di un giovane professore di montagna. L’insegnante sta seguendo con passione civile e coinvolgimento morale la disperata missione del generale Dalla Chiesa in Sicilia. Nel frattempo cerca di convincere Memo, un suo alunno, a non abbandonare gli studi dopo la terza media, come gli viene chiesto dal padre e dai costumi della sua valle, nella Bergamasca. Quasi trent’anni dopo, lasciandosi trasportare sull’onda dei ricordi, l’insegnante prossimo alla pensione rivive il singolare incrocio che all’epoca si creò tra i fatti della grande cronaca e i destini del suo mondo piccolo. Con una certezza: un filo invisibile e sottile ha legato Memo e il Generale. Per gentile concessione dell’editore, anticipiamo un brano del libro.

Il 3 settembre, in valle,fu unagiornata di foschia edi silenzio. I pochi villeggianti della zona avevano già chiuso da qualche giorno le proprie dimore estive, lasciando dietro di sé la prima malinconia preautunnale. Il paesaggio sembrava adeguarsi docilmente al prossimo cambio di stagione e di atmosfera: i boschi e i pascoli cominciavano a perderela brillantezza dei colori, declinando giorno dopo giorno verso tonalità pastello, venate dalle prime striature ocra e arancio, come quando su una capigliatura ancora giovane compaiono i primi fili bianchi dell’età che avanza. Timide ed estese nubi di vapore biancastro gravavano sulle creste delle montagne, conferendo alle rumorose attività degli uomini toni bassi e ovattati.

Avevo trascorso la giornata come ormai da anni - come ancora adesso - trascorso gli ultimi delle vacanze: cercando disperatamente di fare ordine in questa stanza, per preparare il ritorno a scuola. [...]

Erano ormai le nove e mezza, più o meno. Ricordo che stavo finendo di lavare le poche stoviglie della cena. Il campanello strepitò inmodo impetuoso. È strano come il suono metallico del campanello di casa nasconda comunque misteriose e inspiegabili tonalità, a seconda di chi e di come si presenti alla porta: l’orecchio abituato riesce a cogliere, in un trillo apparentemente sempre uguale a se stesso, mille spiegazioni e mille risvolti, stabilendo da subito fondate ipotesi su chi e perché stia suonando, se sia cioè portatore di buona novità, o di una notizia ferale, o di una banale comunicazione, o di un amichevole saluto. Difficile sbagliare, dopo anni di vita domestica.

La sera del 3 settembre 1982 il mio orecchio colse subito agitazione e furore, in chi suonava dal cancello.

Mi affacciai alla finestra, vidi Memo. Più che altro riuscii a distinguere la sua figura familiare, profilo inconfondibile disegnato nel buio dalla debole lampadina dell’entrata. Fui molto sorpreso e preoccupato di trovarmelo qui a quell’ora. Non era mai successo. Per un attimo, sperai in modo infantile che fosse salito a darmi finalmente la notizia attesa da giorni: l’annuncio solenne e ufficiale che gli era riuscito di convincere suo padre a permettergli di continuare gli studi. Lo sperai vivamente, ma fu solo il tempo fulmineo di un istinto egoistico. Altrettanto fulmineamente, la speranza mi abbandonò: quel Memo che stava salendo a lunghi passi dal giardino, muovendosi a scatti, con incedere quasi nevrotico, non poteva assolutamente portare buone notizie. Aspettandolo sulla porta di casa, ebbi la certezza che qualcosa di pesante gli era successo. Non ci fu saluto, nessun complice «Sapere aude», niente sorrisi. Sudava, respirava affannosamente: mi apparve chiaro che era arrivato di corsa.

Per la prima volta, Memo mi guardò fisso negli occhi quasi con rabbia, liberando una sorta di risentimento personale. Parlò subito in modo concitato, con voce strozzata.

- Il suo eroe. Visto com’è finito? L’hanno ammazzato in mezzo alla strada. Lui e sua moglie...

Prima ancora che riuscissi a realizzare, mi gettò addosso la domanda più feroce.

- Allora, cosa dice adesso? Prof, me lo ripeta ancora, se le riesce: ne vale la pena?

La mia testa era confusa. La digestione mi si bloccò di colpo. Ricordo che sentivo freddo. E ricordo che stranamente, forse in modo persino esagerato, era come semi avessero avvertito di un lutto familiare. Anche peggio. Sono sincero, a costo di apparire mostruoso: la morte di certe zie lontane non mi ha mai procurato gli stessi sconvolgimenti.

Il Generale, avevano ammazzato il Generale. L’idolo della mia estate, l’idolo diverso, l’idolo in divisa. L’idolo sovrastato dalle imprese sportive di altri idoli vestiti con un’altra divisa. Provai un dolore immenso e inconsolabile. Ebbi solo la capacità di dire poche parole qualunque.

- Calmati, Memo. Siediti un attimo.

Accesi la radio e il televisore.  In modo confuso e frammentario, le notizie confermavano: il Generale e la sua giovane moglie assassinati mentre erano in macchina, nel centro di Palermo. Gli aggettivi rituali dell’avvenimento, quegli aggettivi come «drammatico, tragico, efferato, agghiacciante, vile», che troppe volte avevamo già sentito nelle cronache dell’epoca, mi scorrevano via come acqua su pietra.

Assieme alla pena, provavo solo rabbia: dopo quello che avevo letto durante la lunga estate di euforie nazionali, oltre i superlativi per il trionfo sportivo e i facili autocompiacimenti per un rinascimento fasullo, questo finale mi sembrò subito scontato. Prevedibile. Già scritto. Sapevo- lo sapevamo in tanti, per le strade d’Italia - che era solo una pura questione di tempo. Il tempo era scaduto. La lucida regia del male, che con pazienza da serpente sa attendere l’attimo giusto per colpire, aveva pazientato fino al momento più propizio: il preciso momento in cui la predasi era trovata sola, debole, disarmata.

Per anni tanta gente autorevole avrebbe cercato poi di negare questa realtà, scomodando inediti retroscena e minuziose ricostruzioni: ma così, allora, pensammo noi, che vivevamo lontano, immersi in un’ingenua speranza. Ascoltando le notizie accanto al mio giovane censore, neppure mi accorsi di liberare poche parole di odio.

- Maledetti. Adesso saranno contenti. Maledetti loro, queste belve di strada che per quattro soldi distruggono vite così piene, senza neppure immaginare quanto siano importanti e irripetibili le creature giustiziate dal loro incosciente arbitrio. Maledetti quelli che le armano, queste belve: anime spietate eperse, cui soltanto un  giudizio divino saprà finalmente assegnare la pena più equa. Ma maledetti anche quelliche il Generale hanno mandato al patibolo, consegnandolo come una vittimasa crificale al nemico, in una nube di parole inutilie ipocrite. Maledetti, maledetti, maledetti tutti quanti...

Memo mi guardava con occhi affranti e increduli, investito dall’enormità del fatto. Per la prima volta, gli avvenimenti del mondo lontano in qualche modo entravano nella sua intatta riserva di candore. Era scosso. Me lo fece intendere, sempre con lo stesso tono risentito.

- Avevo letto la sua intervista. Quella che mi ha dato l’altro giorno. Mi era proprio piaciuta. Era un grande uomo. Vede però come finiscono i grandiuomini, a questo mondo? È laprima cosa che mi ha detto mio padre. Non gli ho risposto, sono venuto via da casa. Però ha ragione. Quanto sono serviti, al povero Generale e a sua moglie, i princìpi, gli ideali, la saggezza? Finisce tutto in un funerale. E i malvagi ridono...

Non sapevo come rispondere. Le conclusioni di Memo erano inconfutabili. Lo erano soprattutto in quell’ora tremenda, la sera del3 settembre. Seppi soltanto biascicare un omaggio personale al mio eroe, ora anche martire.

- Era un uomo giusto. Memo, era un uomo giusto.

Il ragazzo mi incalzò.

- Uomo giusto, uomo giusto. Ma si può sapere una buona volta che significa, uomo giusto?

Credo sia la domanda più impervia e più complicata che abbia mai ricevuto da un alunno. Sul momento,scosso più di lui, non seppi come rispondere. Balbettai qualcosa. Sicuramente qualcosa che non gli bastò. Che non gli poteva bastare. Memo si sentiva cometradito da me, quasi l’avessi avviato lungo un sentiero misterioso assicurandogli meraviglie, facendogli invece scoprire dopo le prime curve uno sconnesso percorso tra insidie e brutture.

Inconsciamente, mi riteneva in qualche modo colpevole della sua delusione. L’avevo verificato tante volte in quei primi anni di insegnamento tra i ragazzi: di tutti gli errori che un maestro puòcommettere, deludere aspettative e ideali è il peggiore. Rischia di diventare irreparabile.

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